sabato 25 agosto 2012

Mi ha chiesto amicizia l'Arcuri


Ieri mi ha scritto Manuela Arcuri, chiedendomi l’amicizia su Facebook. Purtroppo ho dovuto negargliela perché risultava il 151° amico. Ora, voi certo saprete che nel 1992 Robin Dunbar dimostrò come nei primati non umani il rapporto tra le dimensioni della corteccia cerebrale e il resto del cervello aumenti in relazione alle dimensioni dei gruppi sociali in cui ogni specie mediamente agisce. Più individui frequenta (di solito, il primate) e più questo rapporto aumenta statisticamente.
A partire da questa osservazione il Dumbar ha derivato  la sua ipotesi del cervello sociale, secondo cui, analizzato il suddetto rapporto e comparato con quello degli altri primati, per gli esseri umani il gruppo sociale corretto dovrebbe comprendere al massimo 150 persone (quello che il Dunbar chiama clan, villaggio, o ecovillaggio). Ci ha scritto anche un libro che consiglio a tutti di leggere: “Di quanti amici abbiamo bisogno? Frivolezze e curiosità evoluzionistiche” edito da Cortina.
Quindi, mi spiace, ma Manuela dovrà aspettare che qualcuno esca dal mio clan per potervi accedere. Con mio forte disappunto, peraltro.
In compenso l’accaduto mi ha permesso di meditare un attimo sul senso del termine di amicizia che i social network hanno inserito da alcuni anni in qua.
Prima pensata: Facebook è un servizio di rete sociale lanciato nel febbraio del 2004,  fondato a Cambridge negli Stati Uniti da Mark Zuckerberg e (non ce li scordiamo, di fatti sono i primi amici di Zuck) dai suoi compagni di college Eduardo Saverin, Dustin Moskovitz e Chris Huges  (cito Wikipedia, altro social della cultura).
Prima del 2004 io avevo più o meno una trentina di amici, metà dei quali non sentivo se non saltuariamente. Oggi, che di amici in FB ne ho 150, ne sento molti meno, pur leggendone i pensieri e gli eventi almeno una volta alla settimana via computer.
Ma  allora che senso ha essere nel clan di Dunbar?
Forse nel cliccare i miei “ accetto amicizia” ho scordato di incrementare in parallelo la mia capacità di sintonizzarmi con loro: altri ricercatori hanno in effetti dimostrato che per riuscire a mantenere un buon numero di relazioni sociali, oltre a una corteccia prefrontale ben sviluppata, è necessario possedere una buona  capacità di comprendere gli stati mentali degli altri, le loro emozioni, le loro conoscenze, e di saper prevedere sulla base di questi le loro e le proprie azioni.
Diciamo che serve almeno un po’ di intelligenza emotiva?
Ma posso io mettermi a comprendere contemporaneamente le emozioni di 150 persone-amiche tutte insieme? Ovviamente no.
O forse ho accettato tante amicizie solo per non dispiacere chi me la chiedeva?
Forse li ho accolti perché ho pensato che potessero essermi “utili”?
Quel che è certo è che da otto anni il termine di amicizia mi sa che ha preso un’accezione un po’ diversa da quella che ha avuto più o meno per 6.000 anni…..e forse anche da quella che dava al termine Dunbar.
Seconda pensata:  allora caro Dunbar, mi sa che mi metto a fare eccezioni: la prossima volta che la Bellucci mi chiede amicizia, ma vaffambagno, gliela concedo. Magari sforzandomi di ispessire un altro po’ la mia corteccia prefrontale.

domenica 12 agosto 2012

The Village


Nelle mie peregrinazioni estive sul net, mi sono imbattuto in THE VILLAGE - Arte Gioco e Formazione http://www.insidethevillage.org
A tutta prima non sapevo bene cosa fosse, ma sono stato catturato dal titolo e soprattutto, ovviamente, dal fatto che The Village, come dicono loro,  sia anche “un gioco, oltre ad essere uno spazio in cui immagini, parole, suoni, rumori e visioni si combinano per dare vita a un’esplorazione delle proprie risorse.”
The Village –si aggiunge nel sito- “è, soprattutto, la metafora di una comunità sociale in cui ciascuno di noi, con le sue competenze e caratteristiche uniche, può trovare delle occasioni di esplorazione interna…
…Ogni villaggio richiede a chi lo abita alcune abilità che permettono alla persona di poter affrontare, comprendere e agire. Ogni situazione ci chiede di attivare le nostre doti, i nostri talenti, le nostre capacità di far fronte a emozioni, problemi, scelte, imprevisti, stereotipi. Per sapere quali sono le competenze che ci servono, capire cosa dobbiamo saper fare, definire il bilanciamento che ci può servire per rendere un gruppo più efficace, immaginare la caratteristica di una buona squadra di lavoro, The Village ha scelto di seguire la via del gioco.

Fico! Ma che gioco è? Questo è meno chiaro. Come al solito chi sviluppa un format cerca sempre di presentarlo come molto interessante senza dire realmente cos’é.
Loro dicono: “con The Village, esplorando la dimensione simbolica di alcune figure (le Carte) e l’uso di un tabellone con più spazi, le persone possono riflettere e lavorare sulle proprie caratteristiche personali in termini di punti di forza e aree di sviluppo, immaginare visioni di crescita per se stesse e per gli altri, aiutare il gruppo di persone con cui lavorano a raggiungere un miglior equilibrio interno, facilitare processi di sviluppo sociale in contesti molto diversi (una comunità, un team di lavoro, un’organizzazione, un’aula, una squadra sportiva), progettare percorsi di sviluppo delle competenze sociali all’interno di quel gruppo, organizzazione, comunità. E – perché no? – divertendosi nel fare tutto questo!
Beh, meno male….

Ma non finisce qui: citando ancora il loro testo di presentazione “The Village non è solo un gioco, è anche un luogo di sperimentazione artistica che cala la dimensione creativa nella quotidianità delle comunità, un progetto di Social Art che ha lo scopo di esplorare il territorio in cui l’espressione artistica incontra le possibilità dello sviluppo sociale.
Le prime attività in questa direzione hanno portato alla creazione dell’innovativa collezione di Digital Art, ispirata alle figure del villaggio e realizzata dall’artista Francesca D'Anna, che ha anche ideato il concept grafico dell’intero progetto.
L’artista ha preso parte attivamente all’elaborazione di The village e sono nati così i quindici pezzi unici che rappresentano la componente visiva delle Carte
.”
Cioè le carte sono state disegnate da D’Anna. Ok, e il resto dell’arte? Come si combina con la formazione? 

Io non ho capito bene, e anche il video (http://www.youtube.com/watch?v=xgbkDL4JavY&noredirect=1) non mi ha dato molto lumi.
Però la cosa mi pare comunque interessante, anche se mi irritano un po’ nel video le figure “professionalmente molto serie” che introducono e parlano, e la solita frenesia del giocare per terra (che è scomodo!), ma questi sono miei vecchi limiti che non ho più voglia di abbattere.
Perciò vi segnalo questo villaggio: in caso sapeste dirci qualcosa di più, avendolo visitato di persona, ne saremmo tutti un po’ arricchiti.

E anche se invece si trattasse del solito genio che ha inventato un altro mazzo di originali tarocchi per gestire l’autoanalisi come scoperta del sé… andrebbe bene lo stesso, il mondo è grande e c’è spazio per tutti.

(ah, se mi leggesse qualcuno del Village: in una slide mostrata nel video si legge Sarte al posto di Sartre, correggete…)

mercoledì 8 agosto 2012

Le lacrime di Olimpia


A Londra ho visto piangere un sacco di gente…
Sulla mia personalissima valutazione circa  livello di educatività dello sport in quanto esempio di conflitto con soluzione a somma 0 (cioè: non si può vincere se qualcuno non perde) ho già scritto lo scorso 7 luglio.
Ma siccome siamo ancora in ambiente olimpico, ne approfitto per approcciare il tema, sempre legato a questa attualità, del senso della vittoria nello sport e del suo riflesso potenziale in formazione e/o coaching.
Parto inevitabilmente  dal caso Schwazer.
Ci si straccia le vesti a 360° e si crocefigge  Alex che ha preso Epo per essere il migliore (volendo abbassare i toni, mi ricorda uno slogan di elettrodomestici Rex che diceva: fatti per essere il numero uno…). Notate bene, non migliore ma IL migliore. Mi domando, lo ammetto, in modo un po’ provocatorio: che c’è di strano se qualcuno bara nello sport –in questo modello di sport- per arrivare a vincere, quando ovunque si dichiara che ha valore solo la vittoria assoluta e non l’approccio individuale (cerco di superare i miei limiti e di questo sono soddisfatto) né quello oggettivo (minchia, sono fra i primi otto al mondo a saper fare così bene questa cosa!). Vedi le affermazioni di Roberto Re, mental coach di Jessica Rossi e altre dive dello sport: “Avevamo programmato la gara proprio come è andata: ci eravamo posti come obiettivo la medaglia d'oro e il record del mondo”. Fosse arrivata terza cosa sarebbe successo in/a Jessica?
Conti, esisti solo se sei il primo. Se arrivi secondo (vedi l’ Errigo immusonita per essere arrivata “solo” argento) o peggio ancora quarto (vedi il dramma vero di Cagnotto& Ferrari) o addirittura ottavo (Sensini), anche se hai battuto i tuoi record personali non conti, non esisti, hai fallito, al massimo ti ringraziano non per quello che hai fatto ora ma per il ricordo di vittorie precedenti.
Non conti per le riprese della tv, che per inquadrare chi arriva quarto in una gara qualsiasi ci deve capitare per puro caso, o per fare sensazione con le lacrime – ma solo se eri famoso già da prima. Non conti per gli sponsor e  i pubblicitari, non conti per le classifiche e la storia dello sport (provate a cercare in internet un decimo arrivato).
Qualcuno dice: c’è anche chi vince senza doping. Vero, ma quel che ci interessa in questo discorso è: siamo sicuri che sia una scelta, che se non ci fossero i controlli non lo farebbe? E guarda caso la rincorsa fra controlli e nuove forme di “incrementi” non legati solo all’allenamento e allo studio è costante.
Qualcuno dice: nella vita è esattamente così. NON E’ VERO. Io posso fare ottime scarpe, il massimo che può produrre la mia manualità, ed esserne fiero e felice anche se non sono le migliori al mondo in assoluto. Io posso essere contento di scrivere bene e di cose interessanti anche se non raggiungo fama e soldi di Eco (nel senso di Umberto). Io mi impegno a migliorare le mie performance lavorative anche se so che non arriverò mai al successo di Gates. La soddisfazione di fare bene il proprio lavoro e di migliorare costantemente, nella vita reale, non è affatto connessa al fatto che o sei il numero uno o non sei nessuno.
Invece nello sport chi adotta come testimonial Yuri Floriani, che pure si è fatto un mazzo così per arrivare –pare senza Epo- in finale e raggiungere il 13° posto fra i migliori del mondo nei 3000 siepi? Mi pare allora colpevole e ipocrita strapparsi le vesti quando qualcuno cede al miraggio – o alla necessità indotta e incontrollabile- di restare su quel vertice inevitabilmente temporaneo che tutti, mental coach, giornalisti, tifosi gli danno come unico possibile.
Qualcuno dice: è sempre stato così dai tempi di Olimpia, quella greca: Milone di Crotone (vincitore di sei olimpiadi consecutive tra il 540 e il 512 a.C.) si dopava con diete di vitello ed erbe…
Ma anche il concetto che chi nasceva schiavo tale restava per tutta la vita è durato per millenni e oggi non è più supportato dalla teoria. Formatori, docenti, coach mental e non, facilitatori, hanno la possibilità di cambiare questo approccio alla competizione e alla vittoria. Facciamolo. Abbiamo il dovere di farlo. Per asciugare le lacrime di Olimpia e fare tornare alla vita  una competizione (quando inevitabile) come si diceva una volta, sana. Cioè orientata a/soddisfatta dal superare i propri limiti indipendentemente da quelli degli altri, a cercare la soddisfazione del risultato in quanto tale e non  rapportato ad altri, a guardarsi dentro per scoprire quali sono i propri obiettivi e non quelli imposti da soldi, fama, capi, coach o circostanze.
Come succede appunto nello sport, quello di oggi e speriamo non quello di domani.
O magari no, nello sport sarà sempre così per costituzione genetica, ma allora lasciamolo alle Olimpiadi e non portiamolo nella formazione e nel coaching di vita reale, usandolo magari come esempio virtuoso, potenziante ed efficace.