lunedì 24 settembre 2012

IL GIOCO FORMATIVO: CONTENUTO E CONTENENTE


Giusto poco tempo fa, davanti a un ottimo piatto di tortellini, si chiacchierava con il Giovanni Brusa e il Liga Ligabue di giochi formativi, di cavoli e di re (chi non capisce il riferimento si legga Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, del buon vecchio Carroll).
Dell’ameno conversare ho già scritto a suo tempo. Oggi vorrei meditare su un tema uscito da quel desco, partito dall’affermazione di Liga: il gioco dell’oca non è adatto alla didattica
Andrea sosteneva che essendo un  gioco di pura fortuna, nessuno impara nulla utilizzandolo. Brusa, supportato dall’amabile anfitriona Giulia Ricci, lo contrastava con vigore, sostenendo che invece il percorso, anche se obbligato, è strumento estremamente utile. Cercando di capire meglio le posizioni, è emerso che il primo aveva ragione, perché pensava al gioco come strumento di attivazione di comportamenti: presa di decisione, collaborazione fra giocatori, pensiero strategico, problem solving… tutte cose che emergono con efficacia e facilità nell’usare regole più o meno complesse, ma comunque effettivamente non nel gioco dell’oca. Giochi che vengono utilizzati come metafora in sè, indipendentemente dal ”vestito” che portano, che mettono addosso. Tanto è vero che possono essere anche astratti, mentre un gioco dell’oca astratto è quasi un ossimoro. E comunque una pirlata intellettuale.
I secondi avevano a loro volta ragione, perché pensavano al gioco dell’oca (e tutti i suoi derivati e riferiti come scale e serpenti per esempio) come supporto per una metafora comunicativa efficace e facile da usare: in quest’ottica non è il meccanismo regolamentale a fare didattica, ma la rappresentatività dei contenuti delle caselle.  Una casella che ti fa avanzare ha un contenuto positivo, una che ti ferma o fa arretrare ovviamente negativo, e quando hai come obiettivo il passare un messaggio attraverso l’ancoraggio mnemonico di situazioni positive e negative, in effetti questo è uno dei modi più facili e immediati per ottenerlo. Non a caso la maggior parte dei giochi didattici della storia del boardgame sono proprio giochi di percorso elementare. 
In più l’uso del meccanismo tiro di dado-movimento pedina-conseguenze della casella di arrivo è assolutamente noto, intuitivo e permette di non perdere nemmeno un istante per la spiegazione del regolamento. E al tempo stesso permette di vincere le resistenze di chi non ha nessuna voglia di studiare regole minimamente complesse (cioè quasi tutti). 

Secondo me è importante ricordare, quando si usano giochi in aula, che i partecipanti non sono appassionati gambler, il gioco è strumento e non obiettivo, spesso gli astanti non ci sono venuti ma ce li hanno mandati. E quindi non li si può pretendere interessati per forza ad un esercizio mentale che non a tutti interessa.

Una terza via d’uso che ho sperimentato con successo (scoprendo ovviamente di non essere l’unico a averla scoperta) è quella di far creare ai discenti stessi il loro percorso simbolico,  relativo (ad esempio) al posto di lavoro. Dando una dotazione generale uguale per tutti, diciamo 60 caselle, di cui magari 15 positive, 30 neutre e 15 negative. E poi facendo confrontare fra loro i percorsi che ne derivano, lavorando sulle diverse percezioni di “peso” fra positività e negatività.
Si ottiene una specie di SWOT analysis ludica molto efficace, facile e veloce da sviluppare.
 Il che si potrebbe ottenere anche facendo disegnare giochi più complessi, magari con risultati molto più interessanti dal punto di vista ludico, ma rischiando di incappare una serie di complicazioni a volte anche inutili.

sabato 22 settembre 2012

LA FORMAZIONE SI PUO’ FARE COL GIOCO, MA NON E’ UN GIOCO


Piccola meditazione dedicata a come vede la gente la possibilità di crescere.

Sto lanciando, come credo di aver già comunicato,  un piccolo corso di formazione dedicato a chi -di solito- non riceve questa opportunità (dicono tutti che la formazione è un’opportunità di crescita…). Un corso che lavora sulle capacità di comunicazione, di negoziazione, di gestione del tempo e del cambiamento, quindi insomma capacità di lavorare in gruppo, meglio di quanto non si faccia già di solito (tutti/molti lavoriamo già, ovviamente).
I potenziali partecipanti (d’ora innanzi definiti PP, maiuscolo per rispetto) a cui viene offerta la cosa sono: studenti, impiegati, casalinghe. Persone che non hanno la possibilità di trovare qualcuno –di solito HR aziendale- che dica loro : “domani vai a questo o quel corso di formazione. Paghiamo noi perché ci serve che diventi un operatore più efficace.”
Data la complessità e la ricchezza del tema, inevitabilmente si svolge in 4 giornate, proposte di sabato o domenica per non tagliare fuori chi lavora normalmente la settimana. Costo: 250 Euro a persona.
Che dedotta IVA fa circa 200 (non si sa più quanto conta l’IVA ormai…) e dedotte le tasse fa  circa 100 euro da fare arrivare nelle mie rapaci tasche.  Quindi 25 Euro netti a giornata di docenza a partecipante, che all’ora (sono diciamo sette ore nella giornata tipo) cubano per me meno di 4 euro all’ora.

I PP concordano che per offrire una potenzialità di  crescita personale e di lavoro forse chiedere 3,5 euro all’ora non sono tanti, aggiungendo però: "ma comunque i 250 Euro li devo cacciare io" …. e hanno ragione.
Poi i PP pongono il secondo problema: ma 4 sabati di fila?
Una prima risposta sarebbe : se ogni sabato vi dessi 50 euro per stare lì 7 ore a non fare niente, li impegnereste questi 4 giorni? Di solito il PP-tipo risponde “quando si comincia”?
Ergo, una giornata di crescita personale vale nell’immaginario del PP-tipo meno di 50 euro.

Ho rispetto massimo per ogni tipo di pensiero ed obiezione, però allora ho il diritto anche io di pensare: sento chiedere da tutte le parti, sindacati, operatori sociali, politici, industriali, tv, giornali responsabili scolastici che la formazione sia il cardine della crescita di una persona e di una nazione. Quindi sarà vero.
Bisognerebbe però aggiungere: basta che la paghi qualcun altro, basta che sia in periodo di lavoro e non festivo, che le feste le devo dedicare a me. Magari andando a fare corsi di fotografia, di tango, di bricolage vero, non comportamentale, che magari costano più di 8 euro all’ora (lorde)
Arriverei, a questo punto, un ultimo pensierino: se non impariamo ad affrontare il problema di questa nostra crisi impegnandoci in prima persona con risorse, tempo e perché no anche denaro nostro; se continuiamo ad aspettare che lo stato, la società, l’azienda risolvano un nostro oggettivo problema, forse, dico forse, dal tunnel non usciamo. 

mercoledì 19 settembre 2012

VIDEOGIOKANDO


Il blog di recensioni http://il-flauto-di-pan.blogspot.it/2012/09/anteprima-game.html?spref=fb ha pubblicato stamattina la copertina con relativa recensione di The Game, l’ultimo libro di Michael Olson,  Il titolo non ci poteva sfuggire, la trama riguarda uno psicopatico autore di videogame, il finale lo lascio alla vostra curiosità. Quello che si connette qui con l’argomento a noi caro è l’influenza che può avere un videogioco sul comportamento di una persona. È risaputo che dopo una partita a F1 o Motor Race (o anche solo Mario Kart) è meglio non mettersi in strada: le percezioni di rischio si abbassano molto passando dal virtuale al reale, e si può diventare un po’ più azzardosi del dovuto. Guardate che è vero: confesso che l’ho provato sulla mia pelle.
È altrettanto evidente che questa possibilità di rischiare-senza-rischiare può essere sfruttata in formazione d’aula per portare le persone a livelli di presa di decisione che in realtà sarebbe difficile evidenziare in altro modo (di solito l’azienda non gradisce che i suoi formandi decedano in aula). In giochi di ruolo in cui si analizza qual è la propensione al rischio, esempio ovvio visto quanto detto sopra, c’è chi muore in un adventure game venti volte e chi solo due. Non serve per definire se uno agisce meglio dell’altro in assoluto, ma magari per vedere come ciascuno di loro prende le sue decisioni in modo più o meno strutturato e strategico ( a volte morire molto in un videogame può essere usato per imparare molto…).
Altra cosa che io trovo molto interessante in queste esperienze videodidattiche è la possibilità di aver altre scelte, cosa che nella vita reale non si ha. Si può tornare indietro e vedere cosa sarebbe successo se… Tanto per cominciare questo è fondamentale per evidenziare -nel caso di lavoro sulla visione strategica- il concetto che nessuna scelta è davvero obbligata e che esistono sempre alternative ad ogni soluzione.
Lo stesso concetto di apprendimento per tentativi ed errori tipico del videogioco  permette spesso e facilmente di auto analizzare quanto ciascuno di noi riesce a usare gli strumenti teorici a nostra disposizione  e quanta fatica facciamo a trattenerci dal “proviamo subito”. Ogni videogame ha un libretto di istruzioni che di solito aiuterebbe a giocare meglio… se lo si leggesse. Un po’ come nella vita di ogni giorno, nei progetti di lavoro: ci sono documenti ed esperienze che possiamo usare per lavorare meglio e più in fretta. Eppure, proprio come in un qualsiasi MMORPG ( Massive Multiplayer Online Role Play), ci è spesso più facile buttarci nell’azione piuttosto che “perdere tempo” a vedere quali strumenti possiamo usare e come.
Questo spiega molto bene, insieme a parecchio altro, Piermarco Rosa in Keiron
(http://www.lameridiana.it/SchedeDettaglio/DettaglioPubblicazione/tabid/61/Default.aspx?isbn=9788861532526), nel suo articolo dedicato appunto all’uso del videogioco nella didattica. Leggerlo in parallelo a The Game è un’esperienza interessante: un po’ come bere consapevolmente un cocktail ben shakerato.

giovedì 13 settembre 2012

Modena, tortellini, storia e dadi didattici


11 settembre, vado a Modena per seguire un seminario dal titolo intrigante:

Il gioco. Uno strumento multidisciplinare. Un seminario pratico.

Ci vado per il titolo, che mi acchiappa  fin nella separazione letteralmente puntuale fra gioco, strumento e praticità. 
Ci vado per i docenti che sono un amico di lunghissima data (Antonio Brusa, docente di storia con cattedra a Bari e utente di giochi per docere la storia), un amico più giovane ma ormai nel gotha del ludico italiano (Andrea Liga Ligabue, esperto, collezionista, organizzatore e padre di figlie giocanti) e Roberto Guidetti che non conosco ma mi fido (docente di genetica e dintorni all’università di Modena, assistito da Matteo Bisanti, giovane ludodivulgatore scientifico).
Come me si fidano evidentemente  molti altri: da discenti ci sono circa sessanta docenti “vere”, di scuola vera, quella che parte proprio oggi, di ogni ordine e grado. Cito al femminile perché di maschi ne siamo 4 fra il pubblico, più i relatori (esclusa ovviamente l’ottima Giulia Ricci, dell’Istituto Storico di Modena, deus ex machina di questo seminario e molto altro).
Il tutto é lanciato da Memo, acronimo che (credo) riprenda Multicentro Educativo Modena.

Son davvero felice di esserci venuto e consiglio a tutti di scrivere al suddetto Memo per avere ogni informazione possibile su questo seminario e sui prossimi: memo@comune.modena.it

Felice perché vedo un ente pubblico che sul serio mette a disposizione dei suoi dipendenti (insegnanti nel caso) strutture e idee d’avanguardia e finalmente un po’ diverse dal solito banale.
Felice perché vedo insegnanti che investono il loro tempo e la loro energia pensando non agli straordinari ma a come trasferire meglio e in modo più efficace i concetti agli studenti.
Felice perché ascolto realtori che non se la tirano ma credono in quello che fanno e lo si vede dalla loro faccia. E trasmettono davvero le cose invece di suggerire solo che sarebbero molto bravi a farlo.
Felice perché ascolto e pratico un sacco di modelli didattici interessanti, molti dei quali con le dovute elaborazioni senza dubbio utilizzabili anche nella formazione d’aula più adulta e manageriale possibile.
Felice perché insieme ad amici approfondiamo il tema ludo formativo dell’attenzione alla forma del gioco vs.contenuti trasmessi o trasmissibili (e su questo conto di sviluppare un post ad hoc).

Vi passo in concreto qualche dritta: 

il gioco dei nomadi e dei sedentari del prof Brusa: lavorare sugli stereotipi usando quello della normale accezione di nomade=zingaro, partendo dai pastori sumeri per arrivare a scoprire che in effetti non si sa nulla dei Rom, e che almeno il 30% di tutti noi è definibile come nomade (dagli informatori farmaceutici ai marinai…). Ottenendo così un bel focus utilizzabilissimo ad esempio per lavorare sulla competenza critica nella raccolta delle informazioni (per maggiori info scrivete a brusa@mundusonline.it).

Il gioco dell’Isola perduta –reperibile in ogni buon negozio di giochi- che fa sviluppare un bel meccanismo di cohopetition, cercando di salvare i giocatori da un’isola che sprofonda progressivamente (un po’ come nel vecchio Atlantis dell’Hasbro, per i più anziani fra i miei lettori). Per sapere di più su questo e altre novità applicabili all’aula potete scrivere a liga@treemme.org.

Il gioco del DNA con le lettere, che mi ha fatto capire in pochi minuti quel che non avevo compreso in 60 anni del meccanismo genetico: con pennarelli e tappi colorati si formano delle combinazioni di colori che corrispondono a lettere, con cui fare anagrammi. Ma basta cambiare un colore e tutto diventa diverso, nuove lettere per nuove parole… detto così magari è un po’ incasinato, ma se chiedete al Memo vi danno la mail di Matteo Bisanti che a sua volta vi spedisce il pacchetto completo di gioco e DNA allegato.

Ah, ho anche mangiato dei tortellini alla panna davvero davvero buoni. E ho visto due Ferrari.

mercoledì 12 settembre 2012

Un video per spiegare un corso per spiegare come lavorare meglio

Ho appena finito di montare un video che cerca di spiegare cosa si fa nel mio corso "La borsa dei 100 attrezzi". 

Attività peraltro divertentissima (montare ilo video, ma anche partecipare al corso) che consiglio a chiunque, magari -per il primo- anche usando il semplice e gratuito programma   Windows Live Movie Maker


Un corso di 4 giorni dedicato a tutti quelli a cui di solito nessuno pensa di fare corsi. Fatto con la partecipazione di mio nipote Filippo nel ruolo di studente un po' rinco e con la colonna sonora scritta ed eseguita dal gruppo di mio figlio Federico nel ruolo di compositore e suonatore di contrabbasso jazz (sono molto orgoglioso di entrambi, non so se si capisce)

Un corso controtendenza, di quelli che non si fanno perché si pensa che non ci siano soldi per queste cose. 

Un video sfida, che conto di vincere anche facendo molti soldi....

lo trovatre anche su Facebook in - La borsa dei 100 attrezzi -

mercoledì 5 settembre 2012

Gamification


Da Wikipedia, l'enciclopedia libera: “Gamification  è l'utilizzo delle meccaniche e dinamiche dei giochi come livelli, punti o premi, in contesti esterni al gioco per creare più interesse o risolvere problemi. Il termine Gamification è stato introdotto per la prima volta in pubblico nel  febbraio 2010 da Jesse Scheel, un famoso Game designer americano, alla "Dice Conference" di Las Vegas”

Oggi un sacco di gente parla di questo concetto di Gamification: eh, roba importante, viene da Las Vegas.
Di fatto corrisponde alla raccolta punti, al piano fedeltà delle linee aeree, al mettere una motivazione ludica per fare vendere o funzionare meglio qualcosa che di ludico non avrebbe nulla. Come i soldatini di plastica che trovavo nel detersivo Tide quando ero piccolo (tanti anni fa…) o i bollini per vincere la mucca Carolina.
Ora io, nei miei 40 anni di game designer career (carriera di inventore di giochi suona meno fico), sono stato contattato un sacco di volte per inserire il concetto di gioco come motivazione o incentivo a qualche attività di business o promozione pubblicitaria. Incredibile, facevo Gamification e non lo sapevo…!
E non ero neanche da solo a farlo: gare fra team di telefonisti di un call center, tornei di venditori che raccattano punti-budget per poi vincere un viaggio e così via, chi di noi che leggiamo in modo un minimo professionale  queste pagine  non ha mai sentito parlare di ‘sta roba?
Eppure come mi giro o telefono sento parlare di Gamification, la vedo in TV, la leggo sui giornali. E allora ho capito: il mio futuro a livello di consulente e game designer deve essere puntato, focussizzato, targhettizato verso un solo ed unico obiettivo: diffondere e fare conoscere l’ H.W.D. l’Hot Water Discovering
Evvai, che finalmente divento guru e faccio i soldi!

sabato 1 settembre 2012

Poker Face


Il poker può essere uno sport/gioco per tutti e per tutte le tasche (lo dice anche Lady Gaga) o, se non si sta attenti, può diventare un fenomeno distruttivo. Ci sono ormai migliaia di testi che vi spiegano le meccaniche pericolose della sindrome GAP relativa, basta ad esempio andare in http://www.andinrete.it, il portale di Azzardo e Nuove Dipendenze. Oppure visitare  http://www.doc.unifi.it/10_azzardo.html dove trovate anche un test che vi dice come siete messi al riguardo. Tuttavia, come detto sopra,  esiste anche un modo molto più semplice e divertente per giocare a poker. Secondo me il modo migliore è quello di farlo fra amici fidati, con un premio definito in partenza compatibile con le tasche di tutti, preversato a scanso di sorprese,  e fiches liberamente interpretate (date un valore sostanzioso, tanto è metaforico: ad esempio dieci euro a fiches, un godere vincere duecento euro in una mano senza in realtà rischiare nulla). Poi giocate come se fossero appunto vere, con tutti i rientri e i rischi del caso: vince tutta e solo la posta preversata chi ad una certa ora ha più “soldi” in cassa.
Non pretendo che tutti o tanti siano d’accordo sulla cosa, io mi diverto un sacco a giocare così con gli amici senza patemi di perdere (né di fare perdere ad altri) somme impreviste.
Al proposito vi consiglio due libri: il primo, di Dario de Toffoli, uno dei maghi del gioco italiano (ha vinto l’oro globale alle olimpiadi del gioco da tavolo di Londra 2012 finite giusto qualche giorno fa), è A scuola di poker, scritto insieme al pluricampione Max Pescatori. Serve per giocare meglio e vincere di più.
Se invece volete prendere il poker come mezzo di crescita personale , magari applicandolo anche in aula esperienziale, cercate il quasi introvabile L’arte marziale del Poker, di Sergio Valzania, editore Solfanelli. Qui il Sergio scrive -in modo molto leggibile e piacevole peraltro- di come gestire alcuni comportamenti che servono poi in effetti in moltissime altre circostanze, anche extra tavolo verde. Per esempio capire quando non è il caso di insistere, quando invece di deve provare a rischiare anche senza troppe risorse. Come imparare a controllare il proprio non verbale…  Ascolto, autocontrollo, calcolo delle probabilità, sviluppo della memoria.
La considerazione per me più importante che si può derivare da questo libro è legata al concetto che spillare le proprie carte appena ricevute -con visibile attenzione e piacere- è una pirlata pazzesca. Le vostre carte-risorsa sono lì comunque, aspettano e non cambiano. Quel che cambia è l’atteggiamente degli altri giocatori quando vedono le proprie. Osservare il  loro non verbale, connettersi con le loro emozioni, definire una strategia in funzione di queste informazioni è assolutamente più importante della valutazione del valore delle proprie carte. C’è chi addirittura -sostiene il Valzania- non le guarda nemmeno le sue carte,  e gioca solo sull’intuizione derivata dalle espressioni dei concorrenti. Trasferiamo il concetto nella realtà di tutti i giorni: quante volte siamo capaci di relazionarci con qualcuno focalizzando l’attenzione su di lui invece che su di noi? Sulle sue emozioni e bisogni piuttosto che sulle nostre necessità? Quanto spesso riusciamo a usare come risorsa le informazioni che ci passano gli altri rispetto alle convinzioni che strutturiamo basandoci solo su quel che abbiamo noi?
Se si può aggiustare una moto secondo il pensiero Zen (Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, di Robert M. Pirsig del ’74, in cui vengono sviluppati i primi elementi di quella che in seguito l'autore avrebbe battezzato Metafisica della Qualità), qui diventa evidente come l’arte marziale del Poker possa leggersi a mò di vero e proprio – e serio- momento di crescita personale.
Crescita che permetterà poi di passare con consapevolezza adeguata alla B.C. (Briscola Chiamata).
Ma di questo capolavoro assoluto, secondo me il miglior modello ludico fra tutti i giochi di carte e forse non solo quelli, parleremo in luogo apposito e più consono.