“Io non sono creativo/a… Il mio non è un
lavoro creativo… Eh la creatività, sarebbe bello… Purtroppo nel mio ufficio la
creatività non può entrare, qui si fanno conti…“
Per carità, basta, non ditelo più. Non
voglio più sentire questa frase. Per piacere, vi prego… La creatività, lo
affermo come uno dei pochi assiomi in cui credo, è di tutti, per tutti e ce
l’abbiamo tutti. Ogni lavoro, ogni processo che sia artistico o amministrativo
o produttivo ha dentro di sé la sua bella parte di creatività. Dirò di più: la
creatività è allo stesso tempo un’inevitabile componente e un dovere, qualunque
mestiere facciamo. Ed è un dovere incrementarla costantemente, con la
consapevolezza e perché no anche con qualche corsino di supporto: se cercate
con attenzione ce ne sono diversi, e molto validi, tra tanta fuffa. Anche se a
volte (o molte volte) non sono compresi nelle sessioni di crescita del
coaching.
Il fatto è che quando si parla di creatività
le persone pensano subito a Einstein e a Leonardo, identificano lavori come il
pubblicitario o il regista, e si rapportano a questi modelli. E poi per forza
si ritrovano sottodimensionati, frustrati e si parano dietro alle affermazioni
difensive sopra citate.
Certo, se si prende la cosa da un punto di
vista diciamo così comparativo col Da Vinci o con Joice, per certi versi hanno indiscutibilmente
ragione.
Ma proviamo invece a focalizzare il concetto
di creatività in modo un po’ più strutturato, anche semanticamente. Magari
chiamando ad aiutarci in questo arduo compito una che di creatività, intesa anche
come eccellenza innovativa, se ne intende per dote naturale e per eredità professionale:
Annamaria Testa. Dell’Annamaria a me piace seguire spesso il blog (che
consiglio anche a voi: nuovoeutile.it). In uno dei suoi post ha ripreso un
discorso molto interessante ai nostri fini, citando addirittura Poincaré, Henri , francese, matematico, fisico, astronomo,
filosofo della scienza, grande divulgatore, ultimo grand savant dell’Ottocento
e primo scienziato del Novecento.
Costui ebbe ad
affermare che la creatività è capacità di unire elementi preesistenti in
combinazioni nuove, che siano utili, aggiungendo come il criterio intuitivo
per riconoscere l’utilità della nuova combinazione sia che sia bella, cioè che abbia a che fare con armonia, economia dei
segni, rispondenza funzionale allo scopo.
Bellissima
definizione no? Suona molto stevejobsiana ante litteram.
Ma il nostro Henri non
si ferma qui, cala anche l’asso, indicando presupposti, condizioni e risultati
del processo creativo. Dice cioè che in creatività si dovrebbe partire sempre
da elementi che esistono già, e connetterli non a caso ma dopo aver selezionato
quali elementi è giusto unire.
Per fare questo il
creativo verace dovrebbe esercitare la conoscenza (La Testa ci ricorda
come Pasteur sostenesse che la fortuna aiuta sì gli audaci, ma ancor più i
preparati); l’intuizione, quando non è possibile avere tutti gli
elementi necessari o che si vorrebbero avere come tali; l’esperienza,
per poter avere anche quel minimo di sicurezza in sé che permette di osare e
sfidare; e infine la tenacia, perché il processo creativo raramente
porta subito a risultati evidenti.
Risultati che
dovrebbero comunque essere evidentemente definibili come nuovi, utili e
“belli”.
Se in ambito
artistico e tecnologico i primi due aggettivi –nuovo e utile- sono facilmente
comprensibili e condivisibili, il bello in ambito di servizio alla persona è forse
un po’ più difficile da definire, come diceva Frassica nel suo personaggio
arboriano Frate Antonino da Scasazza: non è bello ciò che è bello, ma che bello
che bello che bello.
Secondo me si
potrebbe semplicemente sintetizzare (io sono per la banalizzazione virtuosa, se
avesse un sito cliccherei mi piace per Occam e il suo rasoio riduttivo) sostenendo
che il risultato bello è quello che soddisfa il creativo, rendendolo contento
di quel che ha fatto.
Tutto molto bello, ma
se noi siamo coach cosa c’entriamo con la creatività?
Beh, caro coach.. Cosa
ne pensi dell’aiutare a mettere insieme cose che esistono già? Cosa ne pensi
dell’aiutare a metterle insieme in modo diverso da quello fatto fino a quel
momento? Cosa ne pensi dell’aiutare a creare utilità per il coachee? Cosa pensi
della necessità di sviluppare la conoscenza delle esperienze più efficaci fatte
qua e là? Che ne pensi della necessità di sviluppare l’intuito quando sembra
che gli elementi razionali non siano sufficienti? Cosa ne pensi della tenacia
nel sostenere la ricerca delle soluzioni, anche quando il silenzio e il buio
sembrano fare muro davanti alla nostra difficoltà?
Ma soprattutto:
cosa ne pensi del creare una connessione che produca bellezza di vita e di
lavoro?
Mi piacerebbe avere
un’indagine che fornisse una statistica sulle risposte medie dei coach a questo
proposito. E poi parametrarla con un’altra indagine che ponesse la domanda:
quante volte ti sei posto la domanda su quanto ti serve la creatività per
essere coach? Quanto ti serve trasmettere la
crescita data dalla creatività consapevole ai tuoi coachee?
Per poi magari finire
con la terribile questione, da cui in fondo siamo partiti all’inizio: ma tu sei
creativo/a? E cosa puoi fare per incrementare questa tua competenza?
*Fin qui il post compare anche sulla nota rivosta di e
per coach professionali Coachmag (www.coachmag.it)
Magari provare con
un gioco, ad esempio il gioco dei film paradossali. Questo è un gioco che tanti
si vantano di avere inventato, da Bartezzaghi a Lillo e Greg, ma i testi dicono
che Woot & Kini (cioè io e Matteo Rosa) l’avevano pubblicato su Comix già
dal ’93… non che la cosa poi abbia molta importanza, ma per amor di precisione…
Si tratta di
prendere un tiolo di film famoso e di leggerne il senso in modo diverso dal
convenzionale, per poi creare una mini recensione. Per esempio il classico e
conosciutissimo Via col vento invece
di raccontare la storia di miss Rossella e della guerra di secessione americana
diventa la storia di un certo vicolo Anfossi, di Genova, in cui la strettoia che
dà sul mare si trasforma per i passanti nei giorni di scirocco in un fastidioso
foen. O il Padrino che da storia di
mafia e morte si può trasformare in storia di liti fra chi assiste il nipotino
alla Cresima.
Il meccanismo si presta
a molte varianti, e questo evolvere diventa a sua volta un esercizio di creatività:
si può dichiarare la storia e fare indovinare il titolo, raccontare tutte le
storie e definire la più bella, creare una storia, la prima che viene in mente
e quindi ragionevolmente banale e poi insistere per ottenerne almeno altre due…
E’ divertente, ve
lo garantisco, e vi garantisco che è anche un utilissimo esercizio per
aumentare la creatività che giace sopìta in voi. Pensateci un’attimo: c’è l’uso
degli elementi-parole in modo diverso, c’è la conoscenza (se non conmoscete un po' di film non ci siamo), c’è l’intuizione (senza la quale non ci arriverete mai) e la tenacia, perché
vi assicuro che prima poi ci si arriva.
E
per finire il risultato é una storia bella.
A meno che il
narratore bari, ma allora questa è un’altra storia di cui parleremo in un altro
post.
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