Ho sentito colleghi proporre come metafora esperienziale
del lavoro di gruppo la jazz band. Non che sia una grande novità: la prima
volta che ho colto questa proposta (mai realizzata che io sappia però) credo
fosse il 2002.
Parlandone comunque in giro, e approfondendo la cosa con
dei veri musicisti, devo dire che in linea di principio l’idea ci sta: in un
jazz team ci sono i solisti e gli accompagnatori, c’è la rotazione delle
performance, c’è la presa di rischio e di responsabilità, c’è la progettazione
del pezzo e le prove, c’è il riscontro di critica e pubblico. Una buona
metafora insomma per il mondo del lavoro in gruppo.
Tutto giusto, solo che come metafora da sviluppare fuori da
un conservatorio risulta piuttosto ardua: intanto il jazz è un genere “difficile” che non molti capiscono
o apprezzano, l’esperienza presuppone comunque un minimo di familiarità con uno
strumento da parte di ciascuno dei partecipanti (in una tromba non si soffia
come molti pensano ma si spernacchia…), la preparazione per arrivare ad un
risultato minimamente accettabile e non-frustrante richiede un sacco di tempo.
Ergo, se si vuole lavorare con la musica forse conviene limitarsi alle percussioni, più banali
e limitate ma facili da recuperare come
strumenti, e di non impegnativo apprendimento (perfino io so, tenendo un minimo di tempo,
battere il cucchiaio sul tavolo).
E così
si possono anche ottenere risultati in breve pure soddisfacenti.
Però il tema che volevo sviluppare in questo post partendo dalla parola jazz in realtà è un
altro.
Faccio un giro un po’ lungo ma ci arrivo, abbiate fiducia.
L’altro giorno sento alla radio Paolo Fresu che
dice come il jazz sia simile al
calcio, proprio per le motivazioni di cui parlavo all’inizio: solisti, gruppo,
preparazione, collaborazione e sostegno.
E allora ho pensato: ma quale calcio, ‘sta roba è la metafora del lavoro del formatore!
Un’aula di formazione, questa è la mia idea, diversamente da
certe altre forme di docenza va
preparata sapendo che la musica da eseguire non sarà mai esattamente quella
prevista, che la classe è un supporto-contrasto vivo, con sue esigenze e tempi
mai uguali, che chi ti ascolta può essere in buona o in cattiva, interessato ad
un pezzo di quel che dici e non a tutto. E con la voglia – necessità-possibilità di
intervenire anche a sorpresa.
Il brano è un tema inizialmente limitato e definito, ma col
tempo si snoda in modo da offrire altre possibilità a chi ascolta-partecipa,
magari passando dalla negoziazione al cambiamento, dall’obiettivo al clima.
Io ho sempre pansato che un buon formatore sia innanzitutto un buon facilitatore,
ma facilitare vuol dire saper ascoltare le difficoltà, le richieste, le attitudini
e le competenze già acquisite di chi chiede di essere facilitato. E mettersi in
sintonia con lui.
Nella mia ormai non tanto breve carriera ho visto docenti
rigidi, incapaci di variare dall'idea che avevano predefinito, finendo per andare allo scontro con la
classe a volte anche in modo duro, e ottenendo solo una contrapposizione stonata,
senza nemmeno il risultato di portare a casa il risultato minimo che avevano predetermnato... Ne ho visti
altri buttare slide e foglietti che si erano preparati e mettersi a disposizione
dei discenti, ponendosi in una dimensione di collaborazione-sostegno reciproco
con esiti da Umbria Jazz Festival.
Con l’aggiunta di divertirsi e divertire, anche toccando
argomenti difficili; anzi, più erano bravi e più la difficoltà del tema li
esaltava. Un po’ Miles Davis insomma.
Allora, tra jazzista e formatore forse non ci sono tante
differenze: se non altro resta indiscutibile il concetto che se non sono
rigidi, hanno coraggio e competenza quasi certamente otterranno un applauso
finale vero e sincero.
Nino non
avere paura / di cambare un’aula con rigore / non è mica da questi
particolari / che si giudica un formatore./ Un formatore lo vedi dal coraggio/
dall’altruismo e dalla fantasia….
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