Nel libro di Harry Potter si arriva a Hogwarts, la
scuola di magìa, salendo su un treno che parte da un binario ufficialmente
inesistente, a metà fra altri due ufficialmente esistenti. È un binario vero, ma visibile solo dall’élite magica, dato che i babbani (i non maghi) non
riescono neanche a concepirlo.
Anche nella esperienzialità della formazione esiste una
zona nebbiosa e a molti sconosciuta, a metà strada fra la pratica outdoor e
quella fatta in aula, seduti sulle seggioline.
E’ la zona del gioco di ruolo
“quello vero”, della metafora da indossare e in cui avvolgersi per vivere
avventure e esperienze della mente. Detto così potrebbe sembrare roba
ipnotico-new age-fideistico, ma di fatto l’utilizzo del role playing in termini
di esperienza applicata alla formazione aziendale ha una potenza davvero reale e concreta. E
sperimentata, oltre che da me, da molti altri miei colleghi, sia pur poco
considerata nella letteratura.
A dire il vero di role play si
parla in molti testi, ma di solito si fa riferimento alla simulazione
“teatrale” di situazioni aziendali. Tipo: il venditore col cliente, o il capo
col collaboratore. Simulare il caso concreto per capire come gestirlo meglio ha
la sua indiscussa efficacia, in termini di sviluppo di competenze hard
(concrete, professionali): adesso ho capito
quali parole devo usare in caso il cliente sia raffreddato… e così via.
Non è però altrettanto efficace quando si lavora sulle
competenze soft, quelle trasversali non applicabili ad un caso specifico, ma
che devono essere elaborate in termini di complessità teorica e poi applicate
nella vita lavorativa attraverso il filtro dell’elaborazione individuale. Qui
riprodurre il caso concreto perde la sua validità, perché più questo è
attinente al compito lavorativo e più risulta limitata la trasferibilità su casi
analoghi ma diversi. Al contrario funziona molto meglio il caso totalmente
fuori contesto aziendale, purché progettato attentamente attraverso la
metafora, per lavorare anche con molta precisione sulla singola capacità-focus della
formazione.
Come invero accade abbastanza facilmente (e
intuitivamente) nelle situazioni outdoor, laddove attraverso la prova di
coraggio sui cavi alti, la camminata nel bosco notturna o l’orienteering nelle
paludi del Polesine si mettono alla prova proprio competenze non “lavorative”
ma intuitivamente (si spera) parallele all’ambiente concreto. Ci sono tuttavia
alcuni limiti alla simulazione outdoor.
Innanzitutto il costo in tempo e logistica: inutile
dire che portare 15 persone sugli altopiani abruzzesi due giorni costa più del tenerli altrettanto
in aula, in sede. Magari sarà più figo, per certi aspetti sarà più
memorizzabile, sotto alcuni punti di vista più premiante (nel senso di
incentive) ma senza dubbio costa di più. Anche in tempo utile di formazione: ci
sono molti tempi morti.
In secondo luogo la maggior parte delle componenti di
rischio non può essere applicata davvero: è evidente, anche a chi ci sta sopra,
che la sicurezza del ponte tibetano deve essere garantita da cime certificate e
piombate a regola di guida alpina, che il cavetto di acciaio e l’imbragatura
devono essere controllati e indossati correttamente, e così via. Non è un caso
se il 99,99 % degli incidenti in un outdoor avvengono scivolando sul lavandino
dell’albergo o mettendo male un piede nell’attraversamento del prato accanto
alla baita. Il che significa, -ad esempio lavorando sulla presa di decisione -
che se ci sono rocce affioranti lo skipper della barca a vela formativa può
solo “fingere” di lasciarla alla guida del partecipante insicuro… Salvo in casi
di rarissimi di “extreme outplacement”,
le aziende non gradiscono che si perdano fisicamente i loro dipendenti.
Altri outdoor limiti: richiede programmazione (si
dipende spesso da enti esterni: i gommoni dei rafter non aspettano solo noi),
la meteo è ingovernabile (una barca a vela in bonaccia è un ambiente non
consono al teamworking), a volte i limiti fisici delle persone sono un ostacolo
difficile da prevedere (cardiopatici, ex fratturati ecc.). Senza contare i
diversamente abili, molto spesso esclusi da queste esperienze.
L’aula
ovviamente salta tutte queste considerazioni negative, ma al contrario è poco
“incentive”, limitante emotivamente e astratta anche nei suoi giochi canonici,
spesso inevitabilmente “vecchia” o almeno già vissuta nei suoi modi di
approcciare la docenza.
Ma proviamo a passare alla
metaferrovia, saltiamo al binario 9 e ¾ tra palco e realtà (scusate la
citazione ligabuiana) e attiviamo quella sfera troppe volte poco considerata
che è la fantasia: giochiamo davvero, non in esercitazione d’aula, giochiamo
che eravamo, come dicono i bambini, che se ne intendono di crescita
intellettuale. Ma non giochiamo a cliente e un fornitore, dottore e paziente: giochiamo ad essere eroi,
maghi, amazzoni… apriamo la mente alla possibilità di immaginarci in un posto
diverso, con abiti diversi, con compagni diversi da quelli che crediamo di
incontrare tutti i giorni. E tentiamo di vivere quel ruolo come fosse
un’avventura sconnessa dalla realtà quotidiana. I giochi di ruolo ”ludici”
richiedono solo una buona capacità di descrizione, un master sufficientemente
attorale (e chi non si ritiene tale fra
i formatori?) e un percorso studiato in modo da porre le persone in condizione
di sperimentare nella immaginazione e nella metafora ambienti e problemi “paralleli” a quelli reali, meglio
se invisibili come tali alla prima analisi.
Prima considerazione: costi logistici zero, anche se è
assolutamente necessario trovare location sia pur interne che garantiscano come
in nessun caso i partecipanti, nel momento in cui agiscono da draghi e maghi,
possano essere visti da colleghi di passaggio fuori metafora. O peggio ancora
interrotti dalla segretaria con un
“dottore-scusi-solo-un-attimo-c’è-da-firmare-questo…”
La fantasia può portare anche all’isola che non c’è, ma
il patto d’aula deve essere che volano solo e tutti quelli che sono d’accordo a
sognarla. Senza estranei a vedere né riporti alla realtà, se no si cade in
volo. E ci si può fare molto male.
Seconda considerazione: rischi realmente astratti fino
alla conclusione più estrema. Non si immagina quanto rimanga davvero male il
partecipante - e i suoi compagni- quando nell’avventura osa troppo e “muore”..
perché nei role playing i rischi sono veri e non filtrati da controlli
assicurativi. E chi sbaglia paga fino in fondo.
Terza considerazione: l’avventura può essere
strutturata in progettazione senza nessun limite. Si può far parlare a folle
oceaniche, si può chiedere di decidere della salvezza di altri; si può andare
in Giappone o in Africa, o a Parigi; si possono saltare e tagliare tempi morti
con un semplice “ma adesso siamo tornati tutti alla reggia di Artù”. Unica
accortezza usare sfondi e ambienti metaforici che tutti ragionevolmente
conoscono: si evitano lunghe presentazioni e si può lavorare sulla percezione
diversa delle diverse persone su fatti e avvenimenti comuni. Il cinema aiuta
moltissimo in questo: basta dire il
tempio maya di indiana Jones e tutti sanno esattamente a cosa si trovano
davanti, e cosa si possono aspettare da quella grande sfera di pietra che
sporge sempre lassù dal bordo del secondo anello.
Anche la possibilità di variare focalizzazione degli
output formativi in corso d’opera è enormemente più attuabile quando si parla
di avventure immaginate rispetto a quelle reali sul campo: se il gruppo si
impunta a non voler definire la leadership, in quanto master direttore
dell’avventura posso fare spuntare una macchina diabolica che impone delle
scelte ad un partecipante specifico,
mentre in un bosco non posso far cambiare il percorso predefinito (se no si
perdono davvero, fa buio, salta la prova successiva sul gommone ecc.)
Problemi possibili: i partecipanti rifiutano di mettersi a giocare
davvero, dichiarano che questa è roba da bambini. Non posso fornire garanzie
teorico psicologiche sulla disponibilità del tipico ingegnere a diventare elfo,
ma ho chiesto di farlo nelle dovute maniere (premettendo l’aspetto teorico
formativo, specificando gli obiettivi e chiedendo un patto d’aula molto
preciso) a molte centinaia di ingegneri, medici e paramedici, insegnanti,
dirigenti e impiegati, ed ho avuto in 15 anni di pratica due (2) rifiuti. A
parte che gli ingegneri malgrado la cattiva fama sono poi i più disponibili - e bravi - a uscire dal
guscio della loro ingegnerìa se glielo si concede in modo corretto…
Certo è sconsigliabile usare questa tecnica formativa
se entrano in campo valutazioni da parte dell’azienda (che comunque devono, per
deontologia professionale, essere sempre dichiarate dall’inizio e accettate dai partecipanti) ; é condivisibile
chi dice “non mi gioco il posto per un rebus o la treccia di una principessa
metaforica”, ma questo credo valga per tutto ciò che lavora in metafora.
Mentre quando si lavora sull’auto percezione e sul
feedback dei colleghi per poter crescere in autonomia (self empowerment) , le
mie esperienze mi dicono che il mezzo non solo è accettato ma anche molto
apprezzato.
Altro problema, la scissione
psicologica fra agente reale e agente metaforico: non sono stato io a tradire i
colleghi, è stato l’elfo che interpretavo e si sa che gli elfi tradiscono
sempre. Questo può succedere se non si lavora prima molto bene sul chiarire che
l’aspetto immaginario sta solo intorno alle persone reali, intanto facendo
scegliere i personaggi in base alla maggior sintonia possibile con il proprio
sentirsi, e poi facendo dichiarare da subito limiti e possibilità concrete da
riportare nel mondo fantastico : per esempio, se non sei capace di nuotare non
nuoterai nemmeno nell’avventura, se sei alto 2 metri e 5 non potrai intrufolarti
facilmente in una galleria da 50 cm di diametro. Con questo si possono
garantire bellissime avventure mantenendo una connessione molto stretta, anche
psicologica, fra personaggio e attore, e garantendo in questo modo un forte
limite alla fuga giustificante attraverso lo specchio della metafora. E quindi
la massima efficacia dell’esperienzialità.
La prima volta che ho sperimentato questa metodologia
correva l’anno 1991 (quasi 20 anni fa), la compagnia dell’Anello che produsse
il primo prototipo era composta da gente che si è fatta poi nomi “seri” nella
formazione (in ordine sparso e sperando di non scordare nessuno : Matteo Rosa,
Emanuele Kettlitz, Maurizio Corbani, Susanna Mazzeschi, Renata Averna, Renata
Rossi, Marina Rossi, Teresa Chambry, Fernanda Siboni e Chiara Martinelli, con
un sussulto di suggerimenti anche dal guru Massimo Bruscaglioni, esterno al
team ma a conoscenza della cosa). Il nome del gioco nella sua prima edizione
specifica era Skandinsky Platz,
l’ambientazione una metropolitana che
andava a fuoco portando i passeggeri in situazioni sempre più drammatiche e
problematiche, il focus formativo sul self empowerment, e il primo cliente ad
usarlo fu Italtel. Presto seguito da molti altri fra cui Microsoft,
Finmeccanica, RAI, Astra Zeneca, GSK e molti altri.
E ancora oggi, quando mi capita di incontrare qualcuno
che aveva partecipato a quei corsi, li ascolto ricordare non di un’aula o una
sedia sotto cui erano passati, ma di una galleria fumosa, un cunicolo pieno di
topi giganti semiparlanti e di colleghi altrettanto stressati da una storia
indimenticata anche a decine (ormai) di anni. Potenza della fantasia.