Pensieri, stimoli e riferimenti fra gioco e formazione d'aula da parte di Marco Alberto Donadoni, detto MAD
giovedì 24 novembre 2016
Gioco&Formazione: Come tradurre SWOT analysis in italiano, ...
Gioco&Formazione: Come tradurre SWOT analysis in italiano, ...: Una settimana fa ho facilitato una SWOT Analysis con un gruppo di volontari nel mondo delle cure palliative. Spiegato il conce...
martedì 22 novembre 2016
Giochiamo che io ero un formatore
Vengo da un sacco di incontri, conferenze, relazioni.
Un sacco di gente a parlare e un sacco di gente ad
ascoltare.
Un sacco di emozioni, di complimenti e scambi di
convenevoli.
Mi domando sinceramente però cosa ho messo nel mio sacco,
cosa mi sono portato via e cosa si porta via quel sacco di gente. Non posso
parlare per gli altri ma lo faccio per me: pochissimo.
Faccio una breve analisi del perché mi capita questo così
spesso (portare via pochissimo) e una volta spuntata la mia indiscutibile
presunzione e supponenza, cerco di focalizzarmi sui contenuti oggettivi che mi possono essere
risultati importanti e/o utili. Mi restano alcune esperienze personali che faccio fatica
a sovrimprimere alla mia quotidianità, due libri citati e interessanti di cui
ho “rubato” titolo ed editore, tre biglietti da visita che potrebbero servirmi
forse in un futuro.
Rimedito sul pentalogo che un vecchio public speaker mi
consigliò di seguire in queste occasioni:
1.
dire qualcosa che il pubblico non conosce
2.
dire qualcosa che al pubblico interessa
3.
dirlo nel tempo giusto, se possibile anche meno
4.
dirlo facendo in modo che il pubblico resti sveglio
fino alla fine
5.
dirlo in modo che il pubblico si porti via il
ricordo di almeno il 10% di quanto detto
.
Rimedito su quel che faccio io quando sto dalla parte degli
oratori, e prego ogni santo che conosco di essere almeno un po’ diverso dalla
maggior parte di quelli che ho ascoltato e almeno un po’ coerente col suddetto
pentalogo. E faccio il fioretto di prepararmi di più, in questo senso, la prossima volta.
Non so se tutto ciò c’entra col gioco, ma con la formazione
mi sa tanto di si: comunque giochiamo che io ero un formatore.
martedì 4 ottobre 2016
LA TERZA VIA AL SUPPORTO PERSONALE
Form@Azione si può leggere formazione, forma-azione ma anche formattazione.
Formattazione nel senso di rivedere competenze, credenze e obiettivi in ottiche diverse e più efficaci. E' un mix fra le pratiche di formazione d'aula e quelle di coaching tradizionale, che dal secondo mutua l'attenzione, l'ascolto e il focus sull'individuo e le sue esigenze particolari, dal primo la proposta e il suggerimento di didattiche concrete e scientifiche con obiettivo di crescita personale.
Si potrebbe definire un passaggio progressivo e continuo dal modello d'aula a quello one to one e viceversa.
E per chi volesse approfondire:
mercoledì 10 agosto 2016
Olimpia seconda puntata
Son passati quattro anni da quando scrissi il
mio primo post “le lacrime di Olimpia”, peraltro incredibilmente molto scaricato. Me lo sono riletto e confermo
quanto allora ho avuto modo di dire. Ora che son più maturo posso riprennderlo aggiungendo qualche altro
elemento al tema , prendendo spunto da una frase sentita in “tutti convocati” di Radio 24,
pronunciata dal mitico Zorro Zorzi, che riporto spero fedelmente:
“nello sport
si scende in campo per vincere, tutto è nero o bianco, o vinci o perdi. Giusto
così. Sarebbe però importante che ci si ricordasse che questo valore di
orientamento al risultato dovrebbe valere solo in quel campo. Una volta usciti
di pedana si rientra in un mondo di grigi.”
Sono anni che vado dicendo in aule e salotti che prendere spunto dallo sport nell’ambito della formazione
esperienziale relazionale è molto pericoloso.
Nello sport vinco se qualcuno perde, anzi se riesco a far
perdere qualcuno. Il pareggio è una sconfitta per entrambi. Anche arrivare
secondi è consolante solo in funzione di qualcun altro che è arrivato terzo,
altrimenti si è ultimi e perdenti. A volte non consola nemmeno quello.
Graziaddio nella vita non è così, o almeno potrebbe non esserlo.
Il risultato migliore dovrebbe essere calcolato sulla valutazione delle proprie
possibilità, e sul cercare di superare quello, non qualcuno. Per certi aspetti
arrivare primo se non si è fornita la prestazione attesa non dovrebbe essere
affatto soddisfacente.
Il pareggio in molti casi è il miglior risultato possibile,
come diceva anche il buon vecchio Brera ai suoi (e miei) tempi: la partita
perfetta finisce zero a zero perché la difesa ottimale contrasta ottimamente l’attacco
ottimale.
Certo magari in quest’ottica non scorre tanta adrenalina come
quando si lotta con qualcuno invece di qualcosa, e infatti le motivazioni di certi guru delle vendite
sono tutte sul forzare il concetto di “tu sei migliore di lui”. Ma alla fine
di numerose discussioni fatte sul tema resto ancora della mia
idea: se tutti, in azienda come in famiglia e come in strada, sapessimo
identificare un risultato da raggiungere senza considerare chi si deve battere
per farlo o addirittura cercarlo (e in questo la teoria dell’Oceano Blu mi
conforta) credo che le performance di tutti potrebbero essere migliori.
Non a caso molti coach di sport essenzialmente di testa come
il tiro con l’arco chiedono ai loro atleti il non concentrarsi sui concorrenti (che identificano
come forza deviante dal successo) ma solo sul bersaglio.
Ecco, questa è una delle poche metafore che mi pare funzionale alla
formazione esperienziale sportiva.
sabato 30 luglio 2016
Gioco (d'azzardo) e Formazione
Riporto pari pari questo post perchè lo ha scritto una che ne sa, una che scrive bene e una che scrive cose che interessano chi frequenta questi luoghi.
Flaminia Brasini inventa giochi e videogiochi, scrive, progetta e realizza interventi di espressività, gioco e didattica. Ha all’attivo diverse collaborazioni con scuole e case editrici scolastiche. Ha ideato vari prodotti ludici, in rete e nella formazione a distanza. Ha gestito ludoteche e realizzato progetti di animazione ludica e culturale. Con un gruppo di persone unite da esperienze e idee comuni sul gioco, sulla comunicazione e sull’educazione nel 2005 ha fondato ConUnGioco, educare e comunicare. “I temi che ci stanno più a cuore sono quelli legati alla relazione (con gli altri, con l’ambiente…), alla trasformazione, alla partecipazione, alla creatività: lavoriamo giocando e mettendoci in gioco.”
il suo blog è http://comune-info.net/2016/07/gioco-azzardo-sappiamo-davvero-problema/
Sono una giocatrice, di quelli che giocano per il piacere di giocare, di stare insieme, di mettersi alla prova, non per soldi. Con il gioco ci lavoro pure, come educatrice.
Ho iniziato a occuparmi di gioco d’azzardo perché mi facevano arrabbiare quelli che parlavano di ludopatia riferendosi a persone dipendenti da certe forme di azzardo. E perché mi sembrava incredibile che qualcuno chiamasse giochi le slot machines.
All’inizio la questione mi pareva semplice: c’è il gioco sano, quello che ti fa stare bene, e c’è l’azzardo che, visto che può farti stare male, è cattivo.
Ovviamente, più ci pensavo più le cose non mi parevano così semplici.
E allora dov’era il nocciolo del problema?
La prima questione era distinguere gioco e azzardo: l’azzardo, per sua natura, esce dal cerchio perfetto del “puro gioco” nel momento stesso in cui non è “disinteressato”, mettendo in campo vincite reali e soldi. Inoltre il gioco d’azzardo si basa prevalentemente (a volte solamente) sulla fortuna e questo secondo alcuni è di per sé un male. Ma la presenza della fortuna (anche di una grossa componente di fortuna) in un gioco non mi pare poi così terribile: in fondo nella vita la fortuna c’è e, per chi considera i giochi anche come strumento educativo, il fatto che giocando si possa scoprire che esiste una tensione reale fra caso e logica, tra controllo e abbandono, con cui imparare a fare i conti, mi pare addirittura una potenzialità interessante e positiva. Il gioco permette di mettere insieme aspetti contraddittori, di lavorare sui paradossi, di stare nella complessità e questa è una delle sue caratteristiche più straordinarie. Logica e fortuna possono coesistere: si può lavorare con la logica, si può accettare la fortuna, si può addirittura cercare la logica dietro alla fortuna (la statistica, per esempio).
I soldi già sono un problema più serio, ma non credo siano di per sé e sempre il problema principale: se fra amici facciamo una partita a poker ogni tanto, in cui nessuno rischia nulla di rilevante per il suo benessere, nemmeno i soldi sono più un problema.
I soldi cambiano le motivazioni e gli esiti del gioco e così ne cambiano ogni aspetto (le emozioni, le relazioni, le potenzialità), eppure di per sé non sono sufficienti a escludere certi giochi d’azzardo dalla categoria dei “giochi”: il poker è un gioco senza dubbio, ma una slot lo è davvero?
Evidentemente conta anche quanto peso abbia la componente economica nel piacere di ciascun gioco e quanto “giocare a soldi” possa incidere realmente sulla vita reale dei giocatori (nessun “gioco” che mi faccia rischiare 1 euro è di per sé economicamente significativo per la mia vita).
Un’amica per aiutarmi ha provato a restringere il campo: “il problema non è l’azzardo, ma l’azzardo patologico”, il fatto che qualcuno con certi giochi possa perdere e perdersi, diventare dipendente e rovinarsi. Ok, questo lo riconosco come un problema. Ma mi pare la vetta di un iceberg. Perché riguarda solo una piccola parte di giocatori d’azzardo e perché temo riguardi solo giocatori con problemi di altra natura e precedenti al gioco stesso. In più su questo non saprei cosa fare, almeno nel caso di patologie conclamate.
Ho provato ad ascoltare qualche psicologo che si occupa del problema. Tralasciando gli aspetti clinici, che non mi competono, ho sentito alcune riflessioni che mi hanno colpita. Una in particolare ha fatto risuonare qualcosa: “i giochi che creano dipendenze si basano sulla fortuna e spingono totalmente su leve emotive: per contrastarli bisognerebbe lavorare con giochi basati sulla logica, giochi di abilità, in cui si vince con capacità e impegno”. La proposta era di riaffermare la razionalità contro l’emotività, l’abilità contro la fortuna. E ancora una volta i conti non mi tornavano. Effettivamente nella nostra società molto spesso ci attraggono e ci imbrogliano facendo leva sulla nostra emotività. Ma non mi pare proprio che si possa dire che viviamo in un mondo in cui la razionalità ha poco spazio! Forse il problema anche qui sta nell’innaturale tentativo di tenere separate le due sfere: razionalità da una parte, emotività dall’altra, dove c’è una non c’è l’altra e viceversa. Anche qui il gioco (quello vero) potrebbe fare molto: il gioco mette insieme emotivo e razionale, ci coinvolge nella nostra interezza e ci costringe a misurarci con diversi aspetti di noi stessi e a trovare conciliazioni e compromessi. Insomma, anche questa cosa dei giochi che puntano sull’emotività contro quelli razionali non mi tornava.
Allora mi sono trovata a pensare: cos’è che a me stona davvero? Cosa mi sembra così grave e doloroso da aver voglia di dedicare tempo e risorse a questa faccenda?
E per prima cosa mi sono venuti in mente i vecchietti del mio quartiere imbambolati davanti a una slot, o certe signore che conosco che si comprano un gratta e vinci dopo l’altro. Mi è venuto in mente il gioco (?) dei pacchi in TV e certi giochini del cellulare che ti acchiappano senza offrirti nessun piacere reale, ma solo con specchietti colorati… Ho pensato alle sale slot che hanno invaso Roma (e non solo) e alla loro infinita bruttezza.
Per finire ho pensato al mio lavoro e ai
ragazzi con cui provo ad impegnarmi.
Uso il gioco come strumento educativo perché il gioco mi permette di
rendere i ragazzi protagonisti, mi permette di dire loro
(sempre, qualsiasi sia il tema del nostro lavoro insieme) “tu sai pensare, tu
sai inventare, tu sai agire a seconda di quel che hai
sperimentato/pensato/sentito; tu puoi scegliere, tu puoi cambiare le cose”. I
giochi con cui lavoro dicono sempre questo, perché sono veri giochi: ti mettono
in gioco, appunto, ti fanno confrontare con te stesso, con gli altri, con una
realtà (simulata e semplificata quanto vogliamo, ma comunque complessa,
mutevole, modificabile con le azioni dei giocatori).
Così ho focalizzato: per me il problema non è certo il gioco! Ma nemmeno l’azzardo in sé. Non è solo la patologia (azzardopatia, per chiamarla col suo nome), né il prevalere in certi giochi di fortuna o emotività.
Per me il problema è un modello culturale che sta dentro a certi giochi che ci hanno invasi e conquistati. Sta nelle slot e nei gratta e vinci e nel gioco (?) dei pacchi in TV. È un modello culturale che dice “tu non sei in grado di cambiare la tua vita con le tue risorse, con le tue scelte, con le tue azioni… affidati a qualcos’altro e spera bene”. Ti puoi affidare alla fortuna o a chi vuoi tu, ma è comunque inutile che ti impegni: stacca pure il cervello, rilassati, perditi e spera.
Ovviamente non sto parlando di un complotto!
Parlo di un modello culturale che semplicemente si adatta così alla perfezione con la nostra politica, con la nostra economia (legale e illegale!), con la nostra storia culturale e educativa (gioco, partecipazione e cittadinanza sono ancora lontani dalle nostre scuole), da essersi affermato senza trovare resistenze, o trovandone troppo poche.
Ecco, io vorrei lavorare per contrastare questo modello culturale. Vorrei farlo giocando, facendo giocare e se serve anche lottando un po’.
Flaminia Brasini inventa giochi e videogiochi, scrive, progetta e realizza interventi di espressività, gioco e didattica. Ha all’attivo diverse collaborazioni con scuole e case editrici scolastiche. Ha ideato vari prodotti ludici, in rete e nella formazione a distanza. Ha gestito ludoteche e realizzato progetti di animazione ludica e culturale. Con un gruppo di persone unite da esperienze e idee comuni sul gioco, sulla comunicazione e sull’educazione nel 2005 ha fondato ConUnGioco, educare e comunicare. “I temi che ci stanno più a cuore sono quelli legati alla relazione (con gli altri, con l’ambiente…), alla trasformazione, alla partecipazione, alla creatività: lavoriamo giocando e mettendoci in gioco.”
il suo blog è http://comune-info.net/2016/07/gioco-azzardo-sappiamo-davvero-problema/
Sono una giocatrice, di quelli che giocano per il piacere di giocare, di stare insieme, di mettersi alla prova, non per soldi. Con il gioco ci lavoro pure, come educatrice.
Ho iniziato a occuparmi di gioco d’azzardo perché mi facevano arrabbiare quelli che parlavano di ludopatia riferendosi a persone dipendenti da certe forme di azzardo. E perché mi sembrava incredibile che qualcuno chiamasse giochi le slot machines.
All’inizio la questione mi pareva semplice: c’è il gioco sano, quello che ti fa stare bene, e c’è l’azzardo che, visto che può farti stare male, è cattivo.
Ovviamente, più ci pensavo più le cose non mi parevano così semplici.
E allora dov’era il nocciolo del problema?
La prima questione era distinguere gioco e azzardo: l’azzardo, per sua natura, esce dal cerchio perfetto del “puro gioco” nel momento stesso in cui non è “disinteressato”, mettendo in campo vincite reali e soldi. Inoltre il gioco d’azzardo si basa prevalentemente (a volte solamente) sulla fortuna e questo secondo alcuni è di per sé un male. Ma la presenza della fortuna (anche di una grossa componente di fortuna) in un gioco non mi pare poi così terribile: in fondo nella vita la fortuna c’è e, per chi considera i giochi anche come strumento educativo, il fatto che giocando si possa scoprire che esiste una tensione reale fra caso e logica, tra controllo e abbandono, con cui imparare a fare i conti, mi pare addirittura una potenzialità interessante e positiva. Il gioco permette di mettere insieme aspetti contraddittori, di lavorare sui paradossi, di stare nella complessità e questa è una delle sue caratteristiche più straordinarie. Logica e fortuna possono coesistere: si può lavorare con la logica, si può accettare la fortuna, si può addirittura cercare la logica dietro alla fortuna (la statistica, per esempio).
I soldi già sono un problema più serio, ma non credo siano di per sé e sempre il problema principale: se fra amici facciamo una partita a poker ogni tanto, in cui nessuno rischia nulla di rilevante per il suo benessere, nemmeno i soldi sono più un problema.
I soldi cambiano le motivazioni e gli esiti del gioco e così ne cambiano ogni aspetto (le emozioni, le relazioni, le potenzialità), eppure di per sé non sono sufficienti a escludere certi giochi d’azzardo dalla categoria dei “giochi”: il poker è un gioco senza dubbio, ma una slot lo è davvero?
Evidentemente conta anche quanto peso abbia la componente economica nel piacere di ciascun gioco e quanto “giocare a soldi” possa incidere realmente sulla vita reale dei giocatori (nessun “gioco” che mi faccia rischiare 1 euro è di per sé economicamente significativo per la mia vita).
Un’amica per aiutarmi ha provato a restringere il campo: “il problema non è l’azzardo, ma l’azzardo patologico”, il fatto che qualcuno con certi giochi possa perdere e perdersi, diventare dipendente e rovinarsi. Ok, questo lo riconosco come un problema. Ma mi pare la vetta di un iceberg. Perché riguarda solo una piccola parte di giocatori d’azzardo e perché temo riguardi solo giocatori con problemi di altra natura e precedenti al gioco stesso. In più su questo non saprei cosa fare, almeno nel caso di patologie conclamate.
Ho provato ad ascoltare qualche psicologo che si occupa del problema. Tralasciando gli aspetti clinici, che non mi competono, ho sentito alcune riflessioni che mi hanno colpita. Una in particolare ha fatto risuonare qualcosa: “i giochi che creano dipendenze si basano sulla fortuna e spingono totalmente su leve emotive: per contrastarli bisognerebbe lavorare con giochi basati sulla logica, giochi di abilità, in cui si vince con capacità e impegno”. La proposta era di riaffermare la razionalità contro l’emotività, l’abilità contro la fortuna. E ancora una volta i conti non mi tornavano. Effettivamente nella nostra società molto spesso ci attraggono e ci imbrogliano facendo leva sulla nostra emotività. Ma non mi pare proprio che si possa dire che viviamo in un mondo in cui la razionalità ha poco spazio! Forse il problema anche qui sta nell’innaturale tentativo di tenere separate le due sfere: razionalità da una parte, emotività dall’altra, dove c’è una non c’è l’altra e viceversa. Anche qui il gioco (quello vero) potrebbe fare molto: il gioco mette insieme emotivo e razionale, ci coinvolge nella nostra interezza e ci costringe a misurarci con diversi aspetti di noi stessi e a trovare conciliazioni e compromessi. Insomma, anche questa cosa dei giochi che puntano sull’emotività contro quelli razionali non mi tornava.
Allora mi sono trovata a pensare: cos’è che a me stona davvero? Cosa mi sembra così grave e doloroso da aver voglia di dedicare tempo e risorse a questa faccenda?
E per prima cosa mi sono venuti in mente i vecchietti del mio quartiere imbambolati davanti a una slot, o certe signore che conosco che si comprano un gratta e vinci dopo l’altro. Mi è venuto in mente il gioco (?) dei pacchi in TV e certi giochini del cellulare che ti acchiappano senza offrirti nessun piacere reale, ma solo con specchietti colorati… Ho pensato alle sale slot che hanno invaso Roma (e non solo) e alla loro infinita bruttezza.
Così ho focalizzato: per me il problema non è certo il gioco! Ma nemmeno l’azzardo in sé. Non è solo la patologia (azzardopatia, per chiamarla col suo nome), né il prevalere in certi giochi di fortuna o emotività.
Per me il problema è un modello culturale che sta dentro a certi giochi che ci hanno invasi e conquistati. Sta nelle slot e nei gratta e vinci e nel gioco (?) dei pacchi in TV. È un modello culturale che dice “tu non sei in grado di cambiare la tua vita con le tue risorse, con le tue scelte, con le tue azioni… affidati a qualcos’altro e spera bene”. Ti puoi affidare alla fortuna o a chi vuoi tu, ma è comunque inutile che ti impegni: stacca pure il cervello, rilassati, perditi e spera.
Ovviamente non sto parlando di un complotto!
Parlo di un modello culturale che semplicemente si adatta così alla perfezione con la nostra politica, con la nostra economia (legale e illegale!), con la nostra storia culturale e educativa (gioco, partecipazione e cittadinanza sono ancora lontani dalle nostre scuole), da essersi affermato senza trovare resistenze, o trovandone troppo poche.
Ecco, io vorrei lavorare per contrastare questo modello culturale. Vorrei farlo giocando, facendo giocare e se serve anche lottando un po’.
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