Che
tu sia interessato a cucina, magia,
management o musica, se guardi la tv di questi tempi scopri che la tua passione
è legata ad un reality.
Ad un Reality game.
Ad un Reality game modello molto McKinsey
UporOut Policy, cioè un modello competitivo
estremo, nel senso che non solo chi perde è eliminato, ma anche in modo il più possibile
violento, avvilente, subornante.
Credo
che solo alcune leggi sulla tutela della morale e dei minori limitino l’espulsione
dei perdenti a questi giochi in una dimensione virtual-emotiva, impedendo agli
autori e curatori di attivare quello che probabilmente nella logica dello share sarebbe il
massimo: la violenza fisica, possibilmente protratta e in chiave espressamente
sadica. Magari col sangue. Magari col decesso finale reale, come si poteva fare
una volta, tipo Anfitetro-Flavio-quello-vero, detto anche dagli amici Colosseo.
Se
non sbaglio in Italia la madrina di questo format gladiatorio moderno è stata la mitica
Maria de Filippi, coi suoi “amici” traditori, infidi, voltagabbana, istigati dal pubblico e dalle giurie dei “sapienti”, ma certo i suoi emuli non le sono
stati molto inferiori.
In
ogni gioco televisivo ormai c’è l’eliminazione il più “cattiva”possibile, in
termini anche ormai decisamente volgari: ho sentito io, non è leggenda
metropolitana “la tua pasta è una merda, vattene che mi fai schifo… la tua performance
magica è penosa, sei bravo a cantare, vai a fare quello…. se non sei capace
nemmeno di tener conto di questi minimi elementi non sei degno del concetto di
management, sei fuori…”
Il
tutto in un contesto sempre uguale: persone cui la qualifica di giudice
(indipendentemente dal loro effettivo spessore morale, tecnico o spettacolare) consente
una relazione quasi morbosa di accanimento sulle vittime partecipanti.
E appunto i partecipanti, che in una dimensione da sindrome di Stoccolma (da Wikipedia: Il
soggetto affetto da Sindrome di Stoccolma prova un sentimento positivo, fino
all’amore, nei confronti del proprio aguzzino, creando una sorta di alleanza e
solidarietà tra la vittima e il carnefice) si assoggettano alle peggiori sopraffazioni, godendo dei rari momenti di
apprezzamento, che ovviamente culminano nell’orgasmo finale quando uno vince il
gioco, avendo inevitabilmente “sterminato” tutti i concorrenti. Il premio? In quasi tutti i casi il finire nell’oblio entro i due o
tre mesi successivi.
Naturalmente
il tutto in un contesto di competizione globale alla quale tutto è concesso, soprattutto
la maldicenza, il tradimento e l’abbandono delle alleanze (sia mai detto che si
creassero). E se per caso si dà spazio a collaborazioni, lo si fa solo in vista
di un ancor più cruento redde rationem finale già ben chiaro e annunciato.
Guardo
tutto ciò (labilmente, lo ammetto, di solito durante lo zapping pubblicitario,
ma è impossibile evitarlo del tutto) e penso a quello che cerco di portare in
azienda quando faccio formazione: la logica win win, la negoziazione efficace, la comunicazione
orientata all’obiettivo comune, il teamworking.
Non il buonismo, ma l’efficacia,
l’utilità proprio del contrario di tutto questo palinsesto televisivo.
E penso a Robert Sennett, un povero pirla laureatosi col massimo dei voti nel 1964 all' Università di
Chicago, Ph.D. ad Harvard , professore
Incaricato alla Yale University, direttore di un programma di studio sulla
famiglia urbana presso il Cambridge Institute, eletto Membro di Facoltà
alla New York University, che oggi insegna sociologia presso la London
School of Economics e storia alla New York University, mentre è Adjunct
Professor di sociologia al MIT.
Il quale spiega abbastanza scientificamente come nell’ambito sociale e
lavorativo la base del successo è la collaborazione, la fiducia, l’orientamento
a condividere l’obiettivo.
E allora
spengo la televisione e mi metto a leggere il suo ultimo libro sull’Uomo
Artigiano, (Feltrinelli in offerta a 9 euro in questi giorni), cercando al contempo
di capire cosa impedisce agli autori e curatori della televisione, non solo quella italiana ma soprattutto loro, di
capire che una parte della responsabilità di certi scontri sociali, di certe
crisi economiche e finanziarie, di certe relazioni che finiscono in crimine è
anche loro, anche dei modelli che propongono come gioco, spettacolo, specchio
di vita. E magari non in piccola parte.
Vuoi
dire che lo fanno perché è più facile seguire le pulsioni di quello
che una volta veniva chiamato popolo da panem et circenses, piuttosto che provare a proporre
idee al tempo stesso divertenti ma anche utili alla crescita di chi sta davanti
allo schermo?
La ggente, signora mia, preferiscono da vedere quelli che se ‘ncazzeno: sò così
libberatori…..
Grazie per il bell'articolo.
RispondiEliminaHo 51 anni, vissuti senza TV. Quando mi capita di guardarla non resisto più di 5 minuti per il disgusto.
Non sono né bacchettone né snob, ma il mio stomaco si rifiuta.
Vi sono ormai studi neurologici serissimi, trentennali, che evidenziano i danni della TV, soprattutto sui bambini, che rischiano seri deficit cognitivi, di attenzione e di linguaggio. Anche il danno psicologico della violenza è provato.
La mia esperienza di docente conferma.