sabato 12 gennaio 2013

Ave Flavio (Briatore) morituri te salutant


Che tu sia interessato a cucina,  magia, management o musica, se guardi la tv di questi tempi scopri che la tua passione è legata ad un reality. 
Ad un Reality game. 
Ad un Reality game modello molto McKinsey UporOut Policy, cioè un modello competitivo estremo, nel senso che non solo chi perde è eliminato, ma anche in modo il più possibile violento, avvilente, subornante.

Credo che solo alcune leggi sulla tutela della morale e dei minori limitino l’espulsione dei perdenti a questi giochi in una dimensione virtual-emotiva, impedendo agli autori e curatori di attivare quello che probabilmente nella logica dello share sarebbe il massimo: la violenza fisica, possibilmente protratta e in chiave espressamente sadica. Magari col sangue. Magari col decesso finale reale, come si poteva fare una volta, tipo Anfitetro-Flavio-quello-vero, detto anche dagli amici Colosseo.

Se non sbaglio in Italia  la madrina di questo format gladiatorio moderno è stata la mitica Maria de Filippi, coi suoi “amici” traditori, infidi, voltagabbana, istigati dal pubblico e dalle giurie dei “sapienti”, ma certo i suoi emuli non le sono stati molto inferiori.

In ogni gioco televisivo ormai c’è l’eliminazione il più “cattiva”possibile, in termini anche ormai decisamente volgari: ho sentito io, non è leggenda metropolitana “la tua pasta è una merda, vattene che mi fai schifo… la tua performance magica è penosa, sei bravo a cantare, vai a fare quello…. se non sei capace nemmeno di tener conto di questi minimi elementi non sei degno del concetto di management, sei fuori…”
Il tutto in un contesto sempre uguale: persone cui la qualifica di giudice (indipendentemente dal loro effettivo spessore morale, tecnico o spettacolare) consente una relazione quasi morbosa di accanimento sulle vittime partecipanti.
E appunto i partecipanti, che in una dimensione da sindrome di Stoccolma (da Wikipedia:  Il soggetto affetto da Sindrome di Stoccolma prova un sentimento positivo, fino all’amore, nei confronti del proprio aguzzino, creando una sorta di alleanza e solidarietà tra la vittima e il carnefice) si assoggettano alle peggiori  sopraffazioni, godendo dei rari momenti di apprezzamento, che ovviamente culminano nell’orgasmo finale quando uno vince il gioco, avendo inevitabilmente “sterminato” tutti i concorrenti. Il premio?  In quasi tutti i casi il finire nell’oblio entro i due o tre mesi successivi.
Naturalmente il tutto in un contesto di competizione globale alla quale tutto è concesso, soprattutto la maldicenza, il tradimento e l’abbandono delle alleanze (sia mai detto che si creassero). E se per caso si dà spazio a collaborazioni, lo si fa solo in vista di un ancor più cruento redde rationem finale già ben chiaro e annunciato.

Guardo tutto ciò (labilmente, lo ammetto, di solito durante lo zapping pubblicitario, ma è impossibile evitarlo del tutto) e penso a quello che cerco di portare in azienda quando faccio formazione: la logica win win, la negoziazione efficace, la comunicazione orientata all’obiettivo comune, il teamworking. 
Non il buonismo, ma l’efficacia, l’utilità proprio del contrario di tutto questo palinsesto televisivo.

E penso a Robert Sennett, un povero pirla laureatosi col massimo dei voti nel 1964 all' Università di Chicago, Ph.D.  ad Harvard , professore Incaricato alla Yale University, direttore di un programma di studio sulla famiglia urbana presso il Cambridge Institute, eletto Membro di Facoltà alla New York University, che oggi insegna sociologia presso la London School of Economics e storia alla New York University, mentre è Adjunct Professor di sociologia al MIT.

Il quale spiega abbastanza scientificamente come nell’ambito sociale e lavorativo la base del successo è la collaborazione, la fiducia, l’orientamento a condividere l’obiettivo.
E allora spengo la televisione e mi metto a leggere il suo ultimo libro sull’Uomo Artigiano, (Feltrinelli in offerta a 9 euro in questi giorni), cercando al contempo di capire cosa impedisce agli autori e curatori della televisione, non  solo quella italiana ma soprattutto loro, di capire che una parte della responsabilità di certi scontri sociali, di certe crisi economiche e finanziarie, di certe relazioni che finiscono in crimine è anche loro,  anche dei modelli che propongono come gioco, spettacolo, specchio di vita. E magari non in piccola parte.

Vuoi dire che lo fanno perché è più facile seguire le pulsioni di quello che una volta veniva chiamato popolo da panem et circenses, piuttosto che provare a proporre idee al tempo stesso divertenti ma anche utili alla crescita di chi sta davanti allo schermo?

La ggente, signora mia, preferiscono da vedere quelli che se ‘ncazzeno: sò così libberatori…..

1 commento:

  1. Grazie per il bell'articolo.
    Ho 51 anni, vissuti senza TV. Quando mi capita di guardarla non resisto più di 5 minuti per il disgusto.
    Non sono né bacchettone né snob, ma il mio stomaco si rifiuta.
    Vi sono ormai studi neurologici serissimi, trentennali, che evidenziano i danni della TV, soprattutto sui bambini, che rischiano seri deficit cognitivi, di attenzione e di linguaggio. Anche il danno psicologico della violenza è provato.
    La mia esperienza di docente conferma.

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