Maresa Bertolo segnala il libro di Walter Nuccio “La
progettazione dei giochi da tavolo” editore Mursia, di cui si è molto ben parlato a Play di
Modena pochi giorni fa. Io non l’ho ancora letto ma come diceva il Marc’Antonio
di Shakespeare...”e Maresa è donna d’onore”, quindi ci si può fidare a risegnalarlo.
Colgo lo spunto da questo testo per soffermarmi un attimo
sul tema libri e corsi di formazione per diventare game designer (una volta si
diceva inventori di giochi, ma così fa più fico).
Ne sento parlare da molte parti, anche estremamente
qualificate come università, seminari e tavole rotonde/esagonali, e ne sento
parlare da game designer molto qualificati come Andrea Angiolino o Spartaco
Albertarelli. Il che mi fa molto piacere visto che a questa etichetta (inventore di giochi) devo la
pagnotta da molti anni.
Però mi è venuto un dubbio, per affrontare il quale ho fatto
un po’ di domande in giro, a gente altrettanto qualificata in campo di game
design tipo Walter Obert, Dario de Toffoli e Angelo Porazzi.
La domanda era: ma di invenzione di giochi si può davvero vivere?
Quanta gente ci vive in Italia?
Interessante sentire che nella risposta di tutti è ricorsa
la metafora delle dita di una mano, forse due.
Certo, un sacco di gente ormai con la possibilità di
autoprodurre informaticamente prototipi vendibili si offre al mercato con il
suo prodotto, curato e studiato ormai quasi sempre a livello più che
accettabile. Tuttavia, in realtà quanti di questi ci guadagnano abbastanza non
dico da viverci, ma almeno da coprire le spese logistiche e temporali dedicate
alla progettazione e realizzazione del loro prototipo?
Appunto, quanti le dita di una mano.
Allora vorrei che tutto quelli che propongono libri, giochi
e opportunità di visibilità dicessero a questi autori una cosa molto semplice e
per quanto mi riguarda vera: inventare, parlate, discute e giocate fino a non
poterne più, ma non createvi l’illusione che questo possa diventare un lavoro.
Tenetevelo come un hobby gratificante, non smettete di provarci, ma tenete
presente che di Emiliano Sciarra (Bang!) o Leo Colovini (Incognito), che
possono dire di aver fatto soldi col frutto del loro ingegno, ne emerge uno ogni
dieci anni se va bene. E non necessariamente perché sono stati più bravi di
voi.
La realtà è che indipendentemente dalle capacità del game
designer, ci sono forse più probabilità di guadagno con un gratta e vinci, che si può defiire comunque anche lui in fondo come gioco, pur se molto meno interessante,
stimolante e gratificante.
Oppure sforzatevi di vedere in quali altri settori, dalla
base economica e di frequentazione lavorativa più significativa del mercato del gioco in scatola potreste
inserire il vostro parto, tipo radiotelevisioni, animazione turistica, editoria, educazione, pubblicità o formazione.
Altrimenti si rischia di venire abbagliati dal sogno di fare
quel che ci piace illudendoci tutta la vita che possa renderci economicamente indipendenti.
Anche se sono un sognatore credo proprio che il tuo pensiero, Marco, sia per molti la "triste" realtà (soprattutto in Italia, dove la cultura del gioco da tavola è sicuramente più acerba che all'estero).
RispondiEliminaPer me l'importante è che venga proposta una possibilità di sognare senza venderla come una probabilità di lavoro concreto, che esiste ma con uno su mille che ce la fa. Ed evitare che qualche sognatore metta nei sogni più euro di quanti ne valga la probabilità.
RispondiEliminaCondivido :)
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