A Londra ho visto piangere un sacco di gente…
Sulla mia personalissima valutazione circa livello di educatività dello sport in quanto
esempio di conflitto con soluzione a somma 0 (cioè: non si può vincere se qualcuno
non perde) ho già scritto lo scorso 7 luglio.
Ma siccome siamo ancora in ambiente olimpico, ne approfitto
per approcciare il tema, sempre legato a questa attualità, del senso della
vittoria nello sport e del suo riflesso potenziale in formazione e/o coaching.
Parto inevitabilmente dal caso Schwazer.
Ci si straccia le vesti a 360° e si crocefigge Alex che ha preso Epo per essere il migliore
(volendo abbassare i toni, mi ricorda uno slogan di elettrodomestici Rex che
diceva: fatti per essere il numero uno…). Notate bene, non migliore ma IL
migliore. Mi domando, lo ammetto, in modo un po’ provocatorio: che c’è di strano
se qualcuno bara nello sport –in questo modello di sport- per arrivare a
vincere, quando ovunque si dichiara che ha valore solo la vittoria assoluta e non
l’approccio individuale (cerco di superare i miei limiti e di questo sono
soddisfatto) né quello oggettivo (minchia, sono fra i primi otto al mondo a
saper fare così bene questa cosa!). Vedi le affermazioni di Roberto Re, mental
coach di Jessica Rossi e altre dive dello sport: “Avevamo programmato la gara proprio come è andata: ci eravamo posti
come obiettivo la medaglia d'oro e il record del mondo”. Fosse arrivata
terza cosa sarebbe successo in/a Jessica?
Conti, esisti solo se sei il primo. Se arrivi secondo (vedi
l’ Errigo immusonita per essere arrivata “solo” argento) o peggio ancora quarto
(vedi il dramma vero di Cagnotto& Ferrari) o addirittura ottavo (Sensini),
anche se hai battuto i tuoi record personali non conti, non esisti, hai fallito,
al massimo ti ringraziano non per quello che hai fatto ora ma per il ricordo di
vittorie precedenti.
Non conti per le riprese della tv, che per inquadrare chi
arriva quarto in una gara qualsiasi ci deve capitare per puro caso, o per fare
sensazione con le lacrime – ma solo se eri famoso già da prima. Non conti per
gli sponsor e i pubblicitari, non conti
per le classifiche e la storia dello sport (provate a cercare in internet un
decimo arrivato).
Qualcuno dice: c’è anche chi vince senza doping. Vero, ma
quel che ci interessa in questo discorso è: siamo sicuri che sia una scelta,
che se non ci fossero i controlli non lo farebbe? E guarda caso la rincorsa fra
controlli e nuove forme di “incrementi” non legati solo all’allenamento e allo
studio è costante.
Qualcuno dice: nella vita è esattamente così. NON E’ VERO.
Io posso fare ottime scarpe, il massimo che può produrre la mia manualità, ed
esserne fiero e felice anche se non sono le migliori al mondo in assoluto. Io
posso essere contento di scrivere bene e di cose interessanti anche se non raggiungo
fama e soldi di Eco (nel senso di Umberto). Io mi impegno a migliorare le mie
performance lavorative anche se so che non arriverò mai al successo di Gates.
La soddisfazione di fare bene il proprio lavoro e di migliorare costantemente,
nella vita reale, non è affatto connessa al fatto che o sei il numero uno o non
sei nessuno.
Invece nello sport chi adotta come testimonial Yuri
Floriani, che pure si è fatto un mazzo così per arrivare –pare senza Epo- in
finale e raggiungere il 13° posto fra i migliori del mondo nei 3000 siepi? Mi pare
allora colpevole e ipocrita strapparsi le vesti quando qualcuno cede al miraggio
– o alla necessità indotta e incontrollabile- di restare su quel vertice
inevitabilmente temporaneo che tutti, mental coach, giornalisti, tifosi gli
danno come unico possibile.
Qualcuno dice: è sempre stato così dai tempi di Olimpia,
quella greca: Milone di Crotone (vincitore di sei olimpiadi consecutive
tra il 540 e il 512 a.C.) si dopava con diete di vitello ed erbe…
Ma anche il concetto che chi nasceva schiavo tale restava
per tutta la vita è durato per millenni e oggi non è più supportato dalla teoria.
Formatori, docenti, coach mental e non, facilitatori, hanno la possibilità di
cambiare questo approccio alla competizione e alla vittoria. Facciamolo.
Abbiamo il dovere di farlo. Per asciugare le lacrime di Olimpia e fare tornare
alla vita una competizione (quando inevitabile)
come si diceva una volta, sana. Cioè orientata a/soddisfatta dal superare i
propri limiti indipendentemente da quelli degli altri, a cercare la
soddisfazione del risultato in quanto tale e non rapportato ad altri, a guardarsi dentro per
scoprire quali sono i propri obiettivi e non quelli imposti da soldi, fama,
capi, coach o circostanze.
Come succede appunto nello sport, quello di oggi e speriamo
non quello di domani.
O magari no, nello sport sarà sempre così per costituzione
genetica, ma allora lasciamolo alle Olimpiadi e non portiamolo nella formazione
e nel coaching di vita reale, usandolo magari come esempio virtuoso,
potenziante ed efficace.
Piangere, piangere, piangere, distrutti per aver vinto un argento. Caro Marco condivido e sottoscrivo tutto ciò che hai detto. Bisogna cambiare approccio alla cultura dello sport, in Italia ancora troppo spesso si è tristi per non aver vinto l'oro, invece di essere felici per aver vinto l'argento.
RispondiEliminaLa competizione gestita in questo modo crea situazioni come quella di Schwazer, che ha di fatto perso il controllo di se stesso, pur di raggiungere l'obiettivo, essere primo, essere visibile!
Come dici tu formatori, docenti, coach mental e non, facilitatori, hanno la possibilità di cambiare questo approccio alla competizione e alla vittoria, ma purtroopo vedo anche in giro che c'è sempre più l'idea di copiare e traslare in altri ambiti questa cultura sportiva, mi riferisco al mondo dell'impresa, della scuola, e anche della politica. Anche tra i ragazzini a scuola conta più il risultato che il contenuto, lotto con le insegnanti per far passare il concetto che il processo è di gran lunga più importante del prodotto finito. Un mio professore di Economia Aziendale all'università mi diceva che prima di tutto bisogna cercare la qualità, poi la quantità arriverà di conseguenza.
Bene allora proviamoci tutti insieme, e soprattutto proviamo a raccontare le Olimpiadi da un altro punto di vista.
Buona lettura e buon gioco.
Carlo Carzan
P.S.: lo adottiamo noi Yuri Floriani, lui non lo sa ancora, ma visto che abita ad Altofonte, vicino Palermo, già oggi pomeriggio con un amica comune abbiamo deciso di portarlo nella nostra ludoteca per incontrare i bambini, per scoprire che arrivare tredicesimo su migliaia di praticanti professionisti è un grande risultato!
Grande Carlo, andiamo così, cercando i sorrisi al posto delle lacrime.
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