mercoledì 8 agosto 2012

Le lacrime di Olimpia


A Londra ho visto piangere un sacco di gente…
Sulla mia personalissima valutazione circa  livello di educatività dello sport in quanto esempio di conflitto con soluzione a somma 0 (cioè: non si può vincere se qualcuno non perde) ho già scritto lo scorso 7 luglio.
Ma siccome siamo ancora in ambiente olimpico, ne approfitto per approcciare il tema, sempre legato a questa attualità, del senso della vittoria nello sport e del suo riflesso potenziale in formazione e/o coaching.
Parto inevitabilmente  dal caso Schwazer.
Ci si straccia le vesti a 360° e si crocefigge  Alex che ha preso Epo per essere il migliore (volendo abbassare i toni, mi ricorda uno slogan di elettrodomestici Rex che diceva: fatti per essere il numero uno…). Notate bene, non migliore ma IL migliore. Mi domando, lo ammetto, in modo un po’ provocatorio: che c’è di strano se qualcuno bara nello sport –in questo modello di sport- per arrivare a vincere, quando ovunque si dichiara che ha valore solo la vittoria assoluta e non l’approccio individuale (cerco di superare i miei limiti e di questo sono soddisfatto) né quello oggettivo (minchia, sono fra i primi otto al mondo a saper fare così bene questa cosa!). Vedi le affermazioni di Roberto Re, mental coach di Jessica Rossi e altre dive dello sport: “Avevamo programmato la gara proprio come è andata: ci eravamo posti come obiettivo la medaglia d'oro e il record del mondo”. Fosse arrivata terza cosa sarebbe successo in/a Jessica?
Conti, esisti solo se sei il primo. Se arrivi secondo (vedi l’ Errigo immusonita per essere arrivata “solo” argento) o peggio ancora quarto (vedi il dramma vero di Cagnotto& Ferrari) o addirittura ottavo (Sensini), anche se hai battuto i tuoi record personali non conti, non esisti, hai fallito, al massimo ti ringraziano non per quello che hai fatto ora ma per il ricordo di vittorie precedenti.
Non conti per le riprese della tv, che per inquadrare chi arriva quarto in una gara qualsiasi ci deve capitare per puro caso, o per fare sensazione con le lacrime – ma solo se eri famoso già da prima. Non conti per gli sponsor e  i pubblicitari, non conti per le classifiche e la storia dello sport (provate a cercare in internet un decimo arrivato).
Qualcuno dice: c’è anche chi vince senza doping. Vero, ma quel che ci interessa in questo discorso è: siamo sicuri che sia una scelta, che se non ci fossero i controlli non lo farebbe? E guarda caso la rincorsa fra controlli e nuove forme di “incrementi” non legati solo all’allenamento e allo studio è costante.
Qualcuno dice: nella vita è esattamente così. NON E’ VERO. Io posso fare ottime scarpe, il massimo che può produrre la mia manualità, ed esserne fiero e felice anche se non sono le migliori al mondo in assoluto. Io posso essere contento di scrivere bene e di cose interessanti anche se non raggiungo fama e soldi di Eco (nel senso di Umberto). Io mi impegno a migliorare le mie performance lavorative anche se so che non arriverò mai al successo di Gates. La soddisfazione di fare bene il proprio lavoro e di migliorare costantemente, nella vita reale, non è affatto connessa al fatto che o sei il numero uno o non sei nessuno.
Invece nello sport chi adotta come testimonial Yuri Floriani, che pure si è fatto un mazzo così per arrivare –pare senza Epo- in finale e raggiungere il 13° posto fra i migliori del mondo nei 3000 siepi? Mi pare allora colpevole e ipocrita strapparsi le vesti quando qualcuno cede al miraggio – o alla necessità indotta e incontrollabile- di restare su quel vertice inevitabilmente temporaneo che tutti, mental coach, giornalisti, tifosi gli danno come unico possibile.
Qualcuno dice: è sempre stato così dai tempi di Olimpia, quella greca: Milone di Crotone (vincitore di sei olimpiadi consecutive tra il 540 e il 512 a.C.) si dopava con diete di vitello ed erbe…
Ma anche il concetto che chi nasceva schiavo tale restava per tutta la vita è durato per millenni e oggi non è più supportato dalla teoria. Formatori, docenti, coach mental e non, facilitatori, hanno la possibilità di cambiare questo approccio alla competizione e alla vittoria. Facciamolo. Abbiamo il dovere di farlo. Per asciugare le lacrime di Olimpia e fare tornare alla vita  una competizione (quando inevitabile) come si diceva una volta, sana. Cioè orientata a/soddisfatta dal superare i propri limiti indipendentemente da quelli degli altri, a cercare la soddisfazione del risultato in quanto tale e non  rapportato ad altri, a guardarsi dentro per scoprire quali sono i propri obiettivi e non quelli imposti da soldi, fama, capi, coach o circostanze.
Come succede appunto nello sport, quello di oggi e speriamo non quello di domani.
O magari no, nello sport sarà sempre così per costituzione genetica, ma allora lasciamolo alle Olimpiadi e non portiamolo nella formazione e nel coaching di vita reale, usandolo magari come esempio virtuoso, potenziante ed efficace.

4 commenti:

  1. Piangere, piangere, piangere, distrutti per aver vinto un argento. Caro Marco condivido e sottoscrivo tutto ciò che hai detto. Bisogna cambiare approccio alla cultura dello sport, in Italia ancora troppo spesso si è tristi per non aver vinto l'oro, invece di essere felici per aver vinto l'argento.
    La competizione gestita in questo modo crea situazioni come quella di Schwazer, che ha di fatto perso il controllo di se stesso, pur di raggiungere l'obiettivo, essere primo, essere visibile!
    Come dici tu formatori, docenti, coach mental e non, facilitatori, hanno la possibilità di cambiare questo approccio alla competizione e alla vittoria, ma purtroopo vedo anche in giro che c'è sempre più l'idea di copiare e traslare in altri ambiti questa cultura sportiva, mi riferisco al mondo dell'impresa, della scuola, e anche della politica. Anche tra i ragazzini a scuola conta più il risultato che il contenuto, lotto con le insegnanti per far passare il concetto che il processo è di gran lunga più importante del prodotto finito. Un mio professore di Economia Aziendale all'università mi diceva che prima di tutto bisogna cercare la qualità, poi la quantità arriverà di conseguenza.
    Bene allora proviamoci tutti insieme, e soprattutto proviamo a raccontare le Olimpiadi da un altro punto di vista.
    Buona lettura e buon gioco.
    Carlo Carzan

    P.S.: lo adottiamo noi Yuri Floriani, lui non lo sa ancora, ma visto che abita ad Altofonte, vicino Palermo, già oggi pomeriggio con un amica comune abbiamo deciso di portarlo nella nostra ludoteca per incontrare i bambini, per scoprire che arrivare tredicesimo su migliaia di praticanti professionisti è un grande risultato!

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  2. Grande Carlo, andiamo così, cercando i sorrisi al posto delle lacrime.

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