Già altrove ho scritto
dell’uso del mattoncino colorato nella formazione. Oggi riprendo l’argomento
stimolato dalla curiosa connessione con cui i maggiori organi di stampa
italiani (online) lo citano proprio a proposito delle didattica, per certi
aspetti in modi opposti. Sul Corrierone
di due giorni fa è uscita la notizia che i sostenitori di
Centopercentoanimalisti chiedono la confisca e il ritiro delle confezioni Lego circo e Lego zoo con la motivazione
che queste due confezioni indurrebbero il bambino che gioca a pensare come sia
normale sfruttare -estirpandoli dal loro elemento naturale- gli animali.
Schiacciato dalla piramide dei
bisogni di Maslow, che mi farebbe preoccupare prima per le famiglie dei
lavoratori della Lego di Lainate -a rischio di cassa integrazione- e poi per le
nefaste conseguenze sulla mente delle piccole potenziali Moire Orfei, personalmente
sarei propenso a dar priorità ad altre forme di attenzione e protesta. Ma
eviterò ogni valutazione e passerò invece a fare notare come questo articolo
sottolinei in ogni caso il peso e importanza didattica che può assumere la
simulazione attraverso il gioco.
Peso e importanza all’opposto
denigrato e sconfessato da un altro articolo legoconnesso pubblicato da La Repubblica.it
che a firma di Marina Cavalleri e titolato “Guidare alianti e fare origami: così
il manager diventa leader”, cita col solito sottotono
ironico, o meglio sarcastico, le aberrazioni della formazione esperienziale: immersioni
nella vasca degli squali, voli in aliante e travestimenti da Superman con
allegato volo carrucolato. Fra le evidentemente risibili (per la giornalista) attività formative metaforiche Marina inserisce naturalmente anche l’idea balzana
di giocare col Lego, una delle attività statisticamente più citate di
formazione demenziale, quando se ne vuol parlare male, insieme al firewalking. Si
potrebbe obiettare che il secondo articolo parla di uso adulto del Lego e il primo
invece di uso infantile, ma si dimenticherebbe allora che non pochi professoroni di università
anche illustri hanno dimostrato come l’uso del gioco sia essenziale per la
tenuta intellettuale a qualsiasi età. Partendo dalla famosa affermazione di George
Bernard Shaw che diceva “L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia
perché smette di giocare". Affermazione a cui si allinea per esempio l’associazione «Giovani nel tempo»
(citata dal terzo quotidiano che vogliamo coinvolgere in questo pezzullo, la
Stampa), che si propone di realizzare e in seguito di commercializzare una
serie di intrattenimenti in scatola, in grado di allenare e mantenere le
capacità cognitive e contemporaneamente di proteggere la salute psicologica
individuale negli anziani. Parte dei proventi verranno devoluti alla ricerca
sull’invecchiamento condotta dal dipartimento di Psicologia dell’Università di
Bologna. Mica pizza e fichi.
Alla
fine di questa breve meditazione, il senso che me ne rimane potrebbe essere sintetizzato in una sola
frase: ma perché i giornali non si occupano di cose serie in modo serio? Magari
potrebbe aiutarli a questo fine una formazione che usi anche mattoncini
colorati… naturalmente dando loro una base teorica e uno studio delle esigenze
intellettuali e aziendali dei giornalisti –prima- e fornendo poi adeguati debriefing
–dopo- per analizzare come si sono comportanti nell’ambito della metafora esperienziale,
e come potrebbero ricavarne utili insegnamenti relativamente al loro lavoro (tutte
cose di cui i professionisti alla Cavalleri non parlano ovviamente mai nei loro
articoli, sennò si stempera il colore).