Giusto poco tempo fa, davanti a un ottimo piatto di
tortellini, si chiacchierava con il Giovanni Brusa e il Liga Ligabue di giochi
formativi, di cavoli e di re (chi non capisce il riferimento si legga Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, del buon vecchio Carroll).
Dell’ameno conversare ho già scritto a suo tempo. Oggi
vorrei meditare su un tema uscito da quel desco, partito dall’affermazione di
Liga: il gioco dell’oca non è adatto alla didattica.
Andrea sosteneva che
essendo un gioco di pura fortuna,
nessuno impara nulla utilizzandolo. Brusa, supportato dall’amabile anfitriona
Giulia Ricci, lo contrastava con vigore, sostenendo che invece il percorso,
anche se obbligato, è strumento estremamente utile. Cercando di capire meglio
le posizioni, è emerso che il primo aveva ragione, perché pensava al gioco come
strumento di attivazione di comportamenti: presa di decisione, collaborazione
fra giocatori, pensiero strategico, problem solving… tutte cose che emergono
con efficacia e facilità nell’usare regole più o meno complesse, ma comunque
effettivamente non nel gioco dell’oca. Giochi che vengono utilizzati come
metafora in sè, indipendentemente dal ”vestito” che portano, che mettono addosso. Tanto
è vero che possono essere anche astratti, mentre un gioco dell’oca astratto è
quasi un ossimoro. E comunque una pirlata intellettuale.
I secondi avevano a loro volta ragione, perché pensavano al
gioco dell’oca (e tutti i suoi derivati e riferiti come scale e serpenti per
esempio) come supporto per una metafora comunicativa efficace e facile da
usare: in quest’ottica non è il meccanismo regolamentale a fare didattica, ma la rappresentatività dei contenuti delle caselle. Una casella che ti fa avanzare ha un
contenuto positivo, una che ti ferma o fa arretrare ovviamente negativo, e quando
hai come obiettivo il passare un messaggio attraverso l’ancoraggio mnemonico di situazioni positive e negative,
in effetti questo è uno dei modi più facili e immediati per ottenerlo. Non a
caso la maggior parte dei giochi didattici della storia del boardgame sono
proprio giochi di percorso elementare.
In più l’uso del meccanismo tiro di
dado-movimento pedina-conseguenze della casella di arrivo è assolutamente noto,
intuitivo e permette di non perdere nemmeno un istante per la spiegazione del
regolamento. E al tempo stesso permette di vincere le resistenze di chi non ha
nessuna voglia di studiare regole minimamente complesse (cioè quasi tutti).
Secondo me è importante ricordare, quando si usano giochi in aula, che i
partecipanti non sono appassionati gambler, il gioco è strumento e non obiettivo,
spesso gli astanti non ci sono venuti ma ce li hanno mandati. E quindi non li
si può pretendere interessati per forza ad un esercizio mentale che non a tutti
interessa.
Una terza via d’uso che ho sperimentato con successo
(scoprendo ovviamente di non essere l’unico a averla scoperta) è quella di far creare
ai discenti stessi il loro percorso simbolico, relativo (ad esempio) al posto di lavoro. Dando una dotazione
generale uguale per tutti, diciamo 60 caselle, di cui magari 15 positive, 30
neutre e 15 negative. E poi facendo confrontare fra loro i percorsi che ne
derivano, lavorando sulle diverse percezioni di “peso” fra positività e
negatività.
Si ottiene una specie di SWOT analysis ludica molto efficace,
facile e veloce da sviluppare.
Il che si potrebbe ottenere anche facendo
disegnare giochi più complessi, magari con risultati molto più interessanti dal
punto di vista ludico, ma rischiando di incappare una serie di complicazioni a
volte anche inutili.