Segnalato da Donatella Boccalari, che ringrazio
Si può prendere sul serio
il gioco? Se sì, che senso ha parlare del gioco come metafora: metafora della
vita, in tutte le tonalità che colorano la commedia umana, ma ancor di più come
metafora del mondo, anzi dei mondi che di volta in volta qualcuno ha
ipotizzato, ha tentato di svelare, si è illuso di avere compreso? Ad ognuno il
suo mondo e quindi il suo gioco? O il gioco, come d’altra parte il mondo, è uno
solo? Chi stabilisce le regole del gioco? Chi è giocatore e chi spettatore?
L’elenco dei quesiti pecca per difetto, ma basta
rileggere l’introduzione di Eugen Fink, a Il gioco come simbolo del
mondo, per ripercorrere le perplessità che accompagnano una qualsiasi
riflessione sul gioco. Alla fine, in Fink, il gioco diventa simbolo del suo mondo,
dimostrando, innanzitutto, che il gioco possa essere preso sul serio.
In effetti il gioco ha conquistato il suo diritto di
cittadinanza all’interno della cittadella teoretica già dai tempi di Eraclito
che in più di un frammento usa il termine gioco: “il fanciullo cosmico
giocando con le tessere colorate, crea mondi” e ancora “il corso del mondo è un
bambino che gioca ai dadi”. Ilgiocare-creare equivale, in questo
caso, a decidere le regole del gioco? Oppure che cosa significa creare con il
gioco? Di fatto chi stabilisce le regole, nel nostro orizzonte più prossimo il
legislatore, è colui che attraverso la legge crea una società
piuttosto che un’altra; una democrazia, per esempio, piuttosto che una
monarchia, un mondo, quindi, piuttosto che un altro. Ma alla fine il gioco non
sarebbe altro che una metafora, calzante e soddisfacente più di molte altre, ma
niente più che una fortunata metafora che ha resistito nel tempo. Eppure
Eraclito ci mette in guardia perché il gioco del suo fanciullo è un gioco
creatore.
Allora cosa significa gioco? Manca una definizione
univoca perché il gioco in quanto termine, concetto, esperienza e fenomeno, non
trova un contenitore in grado di avvolgerlo senza lasciare scoperta nessuna
zona. Tra chi ha navigato tra le pieghe del gioco, tentando di coglierne gli
aspetti non familiari ed immediati, e quindi impegnandosi per formulare una
definizione, ci sono Huizinga (Homo ludens 1973) e Caillois (I
giochi e gli uomini 1981). Per il primo "ogni gioco è anzitutto e
soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco. (…) Gioco non è
la vita 'ordinaria' o 'vera', è un allontanarsi da quella per entrare in una
sfera temporanea di attività con finalità tutta propria, già il bambino sa
perfettamente di 'fare solo per finta', di 'fare solo per scherzo".
Ancora: "Il gioco è qualche cosa di disinteressato, è un intermezzo della
vita quotidiana, una ricreazione". E poi: "il gioco si isola dalla
vita ordinaria in luogo e durata; (…) il gioco comincia e ad un certo momento è
finito". Infine "Ogni gioco ha le sue regole. (…) Il giocatore che si
oppone alle regole o vi si sottrae è un guastafeste. Il guastafeste è
tutt'altra cosa che il baro: quest'ultimo finge di giocare il gioco".
Ne I giochi e gli uomini Caillois
aggiunge che il gioco è un'attività "incerta: il cui svolgimento non può
essere determinato né il risultato acquisito preliminarmente”. E alla modalità
della competizione, già introdotta da Huizinga, aggiunge l'azzardo, la maschera
e la vertigine.
Eppure, entrambi gli studi, nonostante le
caratteristiche del gioco messe a nudo, non approdano ad una definizione
univoca ed inequivocabile. Il gioco sfugge a qualsiasi intento classificatorio,
dunque, perchè nel gioco i concetti oscillano tra identità e contrario
(libertà-necessità, utilità-gratuità, lavoro-ozio, realtà-finzione) . Il gioco
innesca la sua carica esplosiva prima di tutto su se stesso, facendo saltare
qualsiasi definizione. Del gioco si possono, soltanto, descrivere alcune
premesse e alcune conseguenze. Insomma il gioco irrompe scalzando di continuo
ogni lavoro di definizione. Ed è proprio grazie a questa sua potenza
destabilizzante che, talvolta, il gioco è stato pensato, e ad esempio assunto
da Nietzsche, come chance per un pensiero non metafisico.
Il gioco è, intuitivamente, continua invenzione,
finzione, o addirittura imitazione, e nel suo essere costantemente un come
se, il gioco illude di assumere i contorni di una sorta di mimesis,
che al contrario della copia platonica, può nascere e sopravvivere
indipendentemente da un archetipo. In questa assoluta autonomia e indipendenza
il gioco comincia a svelare quella forza che lo sottrae ad una conoscenza
“perfetta” e lo rende molto più di una metafora.
Pensiamo al pais eracliteo: nel suo giocare-creare,
il fanciullo confonde i propri contorni con quelli di un demiurgo inconsapevole
che si abbandona alla necessità di ciò che lo avvolge, ovvero alle regole di
quel gioco entro il quale egli stesso si muove. L’interazione tra il fanciullo
e il corso del mondo è dato da quella consonanza che deriva dall’appartenere ad
uno stesso orizzonte, quello del gioco appunto, che impone prospettive diverse.
Perché il gioco evoca l’idea di una totalità chiusa in se stessa, con le sue
regole non determinate da nulla di esterno al gioco, né aventi alcuna finalità
pratica. Il gioco è un fare non serio, un fare come s,e che
svincola l’uomo dalla pesantezza della vita reale. E’
leggerezza, gioia, spensieratezza ed è assoluta libertà della creazione, intesa
non in senso cristiano, ma come pagano poiein, incarnato dal
fanciullo di Eraclito e riproposto, seppur con confini diversi da Nietzsche,
che non si pone il problema della natura del gioco, ne parla come di un
“istinto al pari del tratto fanciullesco”, o come di “un sintomo della
forza che caratterizza la psicologia dell’artista”, di colui che crea,
quindi, di colui che produce, che fa.
Questa potenza creatrice del gioco, fa del gioco il
gesto dissacrante dello spirito libero. “Un altro ideale – scrive Nietzsche
nell’aforisma 382 de La gaia scienza – ci precede correndo, un
prodigioso ideale, tentatore, ricco di pericoli, al quale non vorremmo
convincere nessuno poiché non è così facile riconoscere a qualcuno il diritto
ad esso: l’ideale di uno spirito che ingenuamente , cioè suo malgrado e per esuberante
pienezza e possanza giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono,
intangibile, divino”. Giocare significa mettere in gioco, in discussione la
costruzione assiologica entro la quale ci muoviamo. Chi gioca? Non il soggetto,
ma il giocatore, che nel panorama nietzscheano è colui che si incammina lungo
il sentiero che conduce alla trasmutazione dei valori, colui che non teme di
fornire il proprio contributo perché questa rivoluzione si compia. Il gioco
rappresenta la modalità idonea per portare a termine questo cambiamento, non in
quanto metafora del mondo, ma in quanto esso stesso ritmo, movimento della
struttura del mondo, perché il gioco, scrive Nietzsche, privilegia l’inutilità
e la transitorietà, è l’ideale da contrapporre a quanti interpretano
l’esistenza secondo schemi razionali e finalistici. Il gioco, senza correre il
rischio di sostanzializzarsi, è esattamente la modalità in cui il mondo si dà
all’uomo, perché il mondo è gioco e l’uomo è dentro questo gioco, appartiene al
gioco. Il gioco spaventa, perché nel gioco c’è un solo vincitore, tutti gli
altri perdono, per loro la rivincita della morale cristiana in un al di là che
non rende immuni, ma consola, dalle sconfitte della vita mondana. Eppure non è
possibile sottrarsi al gioco, nessuno può alzarsi dal tavolo verde (notare l’accezione del gioco per definizione
come azzardo ndr) e restare a guardare, perché il gioco costitutivamente è
presente nell’uomo come nel mondo. E l’eroe pre-tragico, pre-socratico, sapeva
giocare. Dioniso maestro di gioco, impavido, accetta la carta che neanche pesca
ma gli viene distribuita, e interprete genuino dell’amor fati perduto
la fa propria. L’uomo odierno ha smarrito l’attitudine al gioco, in una sorta
di epochè ha smarrito quell’intenzionalità che lo rendeva
istintivamente giocatore per paura di perdere. “Quanta verità può sopportare un
uomo? Quanta verità può osare un uomo?” Si chiede Nietzsche. L’uomo, insomma,
può sopravvivere alla consapevolezza di essere pedina di una scacchiera di cui
non conosce le regole, che eppur ci sono ma non stabilite dai giocatori? No,
risponde Nietzsche, recuperare la dimensione del gioco significa realizzare la
metamorfosi che porta al super-uomo.
Per attuare questa mutazione è necessario
comprendere che così come il gioco ha le sue regole ferree ma assolutamente
arbitrarie, non determinate da nulla e assolutamente non finalizzate a nulla di
esterno al gioco, il mondo come totalità non è causato né determinato da nulla.
Allora, pensando il mondo come gioco, l’uomo pensa l’essere come
senza-fondamento, come non necessitato da nulla e, al tempo stesso, fonte di
ogni necessità. Non si tratta, dunque, di una “oggettivazione cosificante”, per
dirla con Fink, ma dell’autocomprensione, da parte dell’uomo, del proprio
essere e della propria libertà.
Dunque Nietzsche, ponendo il mondo sotto il segno
del gioco, espone il mondo (e l’uomo) al nulla del fondamento, alla sua
non-necessità e assoluta libertà di essere altrimenti o non essere affatto. Gli
sviluppi di questa impostazione vanno collocati - in netta opposizione al
pensiero della metafisica - sotto il segno del tragico, di un pensiero che ha
al suo centro l’idea che l’essere sopporti la contraddizione, sottraendolo così
al principio di ragione. Un pensiero in cui non c’è una verità che spieghi e
che salvi, in cui non c’è fondamento e dunque neppure possibilità di trovare un
senso ultimo delle cose. Un pensiero che, poggiando sul nulla, vede le cose nel
loro essere effimere, mortali, non necessarie e le ama nella loro fragilità,
nel ‘dono’ del loro esserci. Un pensiero, aggiungiamo, in linea con quello di
Heidegger, che coglie il senso dell’essere nella sua infondatezza, nella sua
libertà e gratuità, e per il quale la ‘domanda fondamentale’ non mira ad una
risposta ma a mantenere l’ente nella possibilità del non essere.
Nietzscheanamente giocare significa porsi in una
dimensione di nomadismo in cui il gioco è tale in quanto gioco, che trova in se
stesso la ragione del proprio esserci e non nel fine che deve raggiungere. Non
banalmente in questo caso l’importante è partecipare, perché partecipare qui
equivale ad aver accettato una prospettiva in cui nessuna meta fagocita e
frantuma il viaggio. Perché l’uomo – spiega Zarathustra – è una fune tesa tra
la bestia e il superuomo. Farsi super-uomo vuol dire accettare di giocare senza
mai intascare il premio, perché lo scopo del gioco è il gioco stesso.
In questo caso nel gioco si rintracciano quelle
idee di libertà, di innocenza, di casualità proprie, secondo Nietzsche, del
divenire del mondo.
La consapevolezza del gioco come “attività” priva
di un fine che lo motivi o lo giustifichi, in realtà è proprio ciò che permette
all’uomo di fissare scopi e obiettivi della propria vita, di continuare a
creare valori, o più precisamente di ri-creare nuovi valori che nascono dalla
riscoperta coappartenenza dell’uomo al mondo, pur avendo coscienza del loro non
essere necessitati da un fine esterno e trascendente rispetto ad essa. E, allo
stesso modo, avendo coscienza del fatto che essi non sono né potranno mai
essere definitivi, perché la volontà di potenza che la vita è porta l’uomo ad
un continuo movimento di autotrascendimento. L’uomo, dunque, può proseguire la
propria avventura della conoscenza anche dopo aver sottratto a questo suo
ricercare il tendere ad una meta ultima e definitivamente acquisita. Ci sono,
sì, delle conquiste conoscitive intermedie presso cui è possibile ‘sostare’, ma
non luoghi dove stabilirsi, perché il cammino della conoscenza è quel movimento
incessante, nomade, che crea il gioco. L’uomo della conoscenza
nietzscheano è il viandante che sosta per brevi periodi presso dei
giudizi, dei sentimenti, delle considerazioni a cui la sua ricerca è
approdata che costituiscono dunque delle mete provvisorie – per poi fare
di essi dei punti di partenza verso terre inesplorate. Raggiungere una meta definitiva,
infatti, significherebbe la fine del viaggio, l’irrigidimento e
l’assolutizzazione di un unico punto di vista. Inoltre, questo viaggio rimette
continuamente in discussione anche il viaggiatore stesso, poiché il
confrontarsi con nuove realtà e nuove percezioni delle cose comporta anche un
viaggio dentro se stessi, verso ciò che in noi è ancora un mistero. Mettersi in
viaggio è dunque anche e soprattutto un mettersi in gioco, un continuo
andare ‘oltre se stessi’, affrontando il rischio della scomposizione e
ricomposizione del proprio essere, delle proprie opinioni, dei propri gusti,
dei propri affetti.
Il gioco di Nietzsche è un gioco di prospettive, di
avvicinamenti e distanziamenti dalle cose, che ci permette di vedere ‘meglio’
la realtà, di comprenderla nel suo divenire molteplice ed incessante
cambiamento, è consapevolezza dell’inesauribilità delle prospettive e dei
significati.
Chi accetta di giocare, accetta anche il tempo del
gioco: un tempo circolare, che gode della ripetizione. Il tempo del gioco è
dissipabile, organizzabile in modo più libero, godibile. Ancora, nel gioco noi
possiamo in ogni momento azzerare l’accaduto e ricominciare da capo, assumere
una nuova identità, annullare il già successo attraverso l’interpretazione di
nuovi ruoli, di nuove possibilità. L’eterno ritorno di Nietzsche cerca appunto
di stabilire un diverso rapporto dell’uomo con il tempo sotto il segno
della leggerezza, per cancellare il risentimento verso il ‘così fu’, verso
il passato, e vincere lo ‘spirito di gravità’.
In tutto il nostro agire quotidiano, infatti, noi
tendiamo ad un fine trascendente e giustifichiamo le nostre azioni in
rapporto ad esso: così ogni attimo divora il senso di quello precedente, e il
tempo della vita è vissuto in modo angoscioso. È quella che Vattimo chiama
«temporalità estatico-funzionale», o «struttura edipica del tempo», in cui il
presente è ‘strangolato’ tra passato e futuro e non vissuto pienamente. Il
gioco ribalta questa disposizione, perchè nel gioco il tempo non ha nessun fine
esterno che lo determini.
Così il fanciullo eracliteo non è altro che il
dionisiaco nietzscheano che sa maneggiare i dadi, che ha dimestichezza coi
dadi, che non ha paura di lanciarli perché è dentro il corso del mondo e non si
muove alla ricerca di una postazione esterna privilegiata, che di fatto non può
esistere perché il giocatore nasce col gioco, come l’uomo nasce col mondo, nel
mondo. Il giocatore fuori dal gioco non esiste.
Il rischio che si annida in una speculazione che
conquista una prospettiva del genere è che il gioco assuma tutte le
caratteristiche della metafisica tradizionale, perdendo proprio le modalità di
gioco e finendo per “sostanzializzarsi”. Perché il gioco conservi la propria
natura occorre che il discorso sia posto nei termini che il gioco possa sempre
essere messo in gioco, non in un infinito rimando, ma in una molteplicità di
esplorazioni ermeneutiche che garantiscano la plurivocità del gioco
stesso.
Attenzione dunque alla metafora del gioco come simbolo
del mondo, che a più livelli ripropone il medesimo inganno: facendo credere che
qualcuno stabilisca le regole del gioco e la posta in palio. Dio e il Paradiso
in una semplificazione ontologica, i governi e popoli in una traduzione
pratica.
Ma se il gioco non è metafora, bensì modalità intellegibile
del darsi del mondo all’uomo, in quanto l’uomo stesso nasce come tessera di
questo immenso gioco cosmico, allora non ha senso cercare o credere che
qualcuno piuttosto che qualcun atro stabilisca le regole. Le regole sono quelle
del ritmo dell’orizzonte entro il quale ci muoviamo che non rispondono a
nessuna logica finalistica ma accadono. Stare dentro il gioco significa non
poter accettare che qualcuno si arroghi il diritto di dare le carte, perché
gioco e giocatore sono parti di uno stesso tutto.
Claudia Mazzola
Università degli studi di Perugia
Cmq sia, ho trattato insieme ad una 2a media il tema del raddoppio del tunnel autostradale del San Gottardo (tra Ticino e Svizzera tedesca) che è di stretta attualità di questi tempi da noi.
Ho creato alcuni gruppi secondo le idee e l’indole dei ragazzi:
1) Un gruppo di “politici” a favore del raddoppio;
2) Un gruppo di “politici” contrari al raddoppio;
3) Una lobby ambientalista;
4) Una lobby degli autotrasportatori.
Poi, in gruppo, dovevano discutere per organizzare delle argomentazioni che appoggiassero le loro opinioni a riguardo. Finita questa fase ogni fazione presentava in un tempo stabilito (per par condicio) ciò che era risputato dalla consultazione e alla fine si faceva una votazione.
Questo piccolo gioco di ruolo (che può essere sviluppato anche su diverse lezioni con ricerche a casa, ecc) aiuta i ragazzi a capire che non tutti la pensano come loro, cerca di fare in modo di aiutarli a rispettare le idee degli altri senza per forza esserne d’accordo e li aiuta a farsi un’idea del tema di stretta attualità (obiettivo didattico della lezione).
Devo dire che è venuta fuori una bellissima lezione.