Come dicono quelli saggi cominciamo dall’inizio, piazziamo quelli
che sono i mattoni base rispetto a qualsiasi costruzione teorica: le
definizioni.
Partendo da una delle molte possibili che identificano il
concetto di gioco: insieme di regole che
creano un contesto non reale da condividere con altri utilizzatori delle stesse
regole.
Come a dire che un gioco è definito più dalle regole
astratte che lo strutturano, e da chi le usa, piuttosto che dal materiale
concreto di caselle, dadi, pedine e scatole.
Dall’altra parte, una delle possibili definizioni del
concetto di formazione esperienziale recita:
attività didattica che usa un contesto di solito metaforico in cui le persone
sperimentano le proprie competenze e capacità, al fine di prenderne
consapevolezza e trasferire poi le possibili implementazioni in àmbito reale.
Cioè: la formazione esperienziale è quel modo di fare
didattica in cui si fa sperimentare un’attività (di solito in modo “non reale”)
per fare meglio capire e memorizzare le teorie che dovrebbero regolarla.
Se teniamo buone queste definizioni notiamo alcuni elementi sorprendentemente
coincidenti: attraverso il gioco si può fare un’esperienza entrando in un
contesto non reale (col vantaggio quindi che tutto possa succedere senza danni
fisici o economici per le persone), organizzato da regole condivise con altri, tecniche
e relazionali, esattamente come di solito succede anche fuor di metafora nella
vita reale.
Non a caso fin dalla notte dei tempi uno degli obiettivi del
gioco infantile è quello di imparare le cose che si dovranno poi applicare da
grandi: caccia, guerra, allevamento dei piccoli, e così via. O di ricordare
alcune norme in modo più facile perché stimolate nella memoria dal
divertimento.
Possiamo quindi azzardarci a dire che giocando si può
imparare (su questo concetto Clementoni col suo Sapientino© ci ha fatto miliardi
di vecchie lire e migliaia di nuovi euri) e su questo probabilmente non discute
nessuno.
Tuttavia -già che ci siamo proviamo ad approfondire un po’
il discorso- questa affermazione viene recepita quasi sempre in tema di
apprendimento simulativo: imparo a scrivere collegando le lettere con gli
animali, gioco al pilota usando il joystick di un fly simulator, gioco al
medico praticando l’Allegro chirurgo, gioco al manager praticando i business
game…
Cioè uso il gioco come campo astratto di pratica in cui
imparo diciamo così gli aspetti hard di un certo lavoro(la manualità dei
chirurgo, il controllo del cockpit di un aereo…), evitando il rischio di un
fallimento aziendale o lo schianto contro la collina di Superga.
Esiste tuttavia un altro uso didattico del gioco,
collegabile in modo meno evidente ma forse ancora più intrigante alla crescita
di una persona: quello dell’analisi e dell’implementazione delle competenze e
capacità soft, quelle non legate al saper
fare ma al saper essere, quelle ad
esempio connesse alla comunicazione, alla capacità di prendere decisioni, al
sapersi relazionare con uno o più altri, al vincere e perdere e così via.
Competenze trasversali utili in tutti i campi e non necessariamente connesse a
qualche attività specifica come la metallurgia o il volo transoceanico, e
tuttavia spesso incredibilmente
sottovalutate in ambito scolastico o aziendale.
Qui lo strumento gioco viene sviluppato indipendentemente
dalla metafora di cui si veste, che resta importante solo come motore di
divertimento, focalizzando l’attenzione educativa sulla parte di gestione delle
regole e delle relazioni.
Anche senza andare alla ricerca di giochi appositamente
progettati a questo scopo (ce ne sono diversi, non tutti i giochi si prestano
ad analizzare o sottolineare le stesse competenze) proviamo a vedere
concretamente come possono funzionare –formativamente parlando-anche i giochi
cosiddetti “comuni”.
Gli scacchi ad esempio, come ogni altro gioco astratto
praticabile in modalità torneo-cronometro, sono un campo di prova ideale per
misurare i livelli di visione strategica e capacità di prendere decisioni sotto
lo stress del tempo.
Diplomacy è -per definizione si potrebbe dire- un ottimo
strumento di valutazione delle capacità negoziali dei giocatori/discenti. Il
vecchio Can’Stop è (era -purtroppo non se ne trovano più tante copie) ottimo
per lavorare sulle capacità di prendersi dei rischi, così come quasi tutti i
giochi in cui si usano più dadi e più calcoli di probabilità.
Se in una sessione formativa distribuiamo solo un po’ del
nostro sapere circa le competenze di negoziazione teorizzate dalla scuola di
Palo Alto, gli “alunni” memorizzeranno solo una parte delle informazioni
passate. Se invece cominciamo a fare giocare il gruppo, diciamo ad esempio a
Coloni di Catan, a un certo punto li fermiamo per informarli su cosa dicono
Fischer&Uri a proposito della negoziazione efficace win win, e poi facciamo
ripartire il gioco sollecitando l’attenzione alle modalità di applicazione
delle informazioni esposte, forse finiremo la “lezione” con una consapevolezza
maggiore di: quanto serve prestare attenzione all’altro, come usare meglio la
comunicazione per spiegare le proprie esigenze, come si arriva ad un risultato
migliore per entrambi…
Nell’utilizzare questi elementi-gioco in un contesto
formativo occorre tuttavia fare attenzione ad alcuni aspetti non sempre
evidenti: la conoscenza delle regole, l’importanza del vincere o perdere, il
rapporto dei partecipanti col concetto di gioco.
1)
Il tempo-aula da dedicare a queste attività è
sempre molto ristretto (in teoria la parte esperienziale del tutto non dovrebbe
superare il 30/50% del tempo globale di docenza), quindi doverne stanziare
troppo per imparare delle regole che nessuno conosce potrebbe diventare
distonico rispetto all’economia temporale globale. Considerando poi che quasi
sempre le regole sono “difficili” da capire, soprattutto da parte di alcuni
soggetti mentalmente meno strutturati (come chi scrive, ad esempio).
Quindi, a meno che non si voglia utilizzare proprio questo
elemento come ulteriore sttrumento di analisi (quanto ci metto a capire una
regola, cosa mi dà fastidio/stress/angoscia nel leggere le regole, quanto è più
facile studiare regole in gruppo ecc.) è consigliabile proporre giochi che
quasi tutti conoscono (l’ipotesi che tutti le conoscano riduce di molto la
gamma dei giochi fra cui scegliere).
D’altra parte anche la diversa conoscenza degli strumenti di
attività da parte di elementi di uno stesso gruppo potrebbe essere un
bell’elemento di meditazione e formazione: anche nel lavoro quasi mai tutti i
membri di un team conoscono le “regole” del progetto allo stesso modo. E questa
conoscenza determina spesso meccanismi di dinamiche interne, creazione di
leadership e così via utilissime da esaminare in aula.
2)
Checché se ne dica, il concetto di gioco si
collega a quello di sport, con la conseguenza inevitabile che i partecipanti
recepiscono l’esercizio come qualcosa in cui è importante, se non essenziale,
vincere e di conseguenza inevitabile fare perdere. A volte – molto spesso- il
piacere di questo risultato tende a prevaricare l’obiettivo reale della
sessione formativa, cioè imparare qualcosa di se stessi e migliorare. Sarà
quindi cura del docente che usa questo strumento come elemento esperienziale
tenere sotto controllo il furore agonistico (come dice sacchi) dei giocatori,
magari sottolineando come questo possa agire da eustress per portare a
risultati migliori o anche peggiori, se non la si tiene sotto controllo. Certo
è che quando si usa il gioco, in alcuni ambiti come ad esempio quello di
negoziazione efficace orientata alla
soddisfazione di entrambi i contendenti, è difficilissimo fare superare alle
persone il concetto di “io vinco se tu perdi” celebrato da ogni attività
sportiva. Quando si arriva al debriefing, cioè la considerazione finale su come
si è agito, qualcuno che dice: “ma era un gioco, era ovvio che l’obiettivo era
quello di far perdere l’altro”, lo si trova sempre.
3)
Non tutti apprezzano, e non tutti nella stessa
misura, il concetto stesso di gioco. Quando si lavora in aula formativa non si
è in una ludoteca, le persone che si hanno davanti spesso non sono venute di
loro spontanea volontà, quasi mai sono venute per giocare, magari hanno una
serie importante di problemi per cui l’idea stessa di gioco risulta loro
estranea quando non fastidiosa. Comunque –e giustamente- rifiutano l’ipotesi di
poter essere giudicate a livello lavorativo tramite una simulazione molto
metaforica quale è il gioco un ogni caso. È quindi fondamentale trasmettere da
subito la comprensione e liceità di queste resistenze, e il patto di non
valutazione se non attraverso forme di autoanalisi (sarete voi che deciderete
se e quanto cambiare per essere migliori, non un assessor o l’azienda)
Anche il modello di gioco non è accettato da tutti allo
stesso modo: facendo una distinzione per generi ad esempio ai maschi andrà più
a genio una metafora ludica di tipo bellico-scontro rituale, per le donne sarà
più consono l’ambito induttivo psicologico.
Per superare queste resistenze è quindi in ogni caso importante
tenere un po’ sotto traccia la parte esperienziale e molto più in luce quella
di crescita formativa, spiegare bene le modalità e gli obiettivi, stimolare le
persone ad usare magari proprio quelle resistenze che l’uscire dalla zona di
confort fa venire fuori.
Detto ciò e fatta attenzione a questi elementi, usare il
gioco in aula formativa è senza dubbio una delle esperienze più arricchenti che
si possano sperimentare, sia a livello di competenze hard che soft.
E questo detto da uno che usa il gioco da quarant’anni in
ogni ambito, ma che allo stesso tempo -avendo un livello di sopportazione della
conflittualità bassissimo- non ama giocare, credo sia davvero illuminante.
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