lunedì 16 luglio 2012

Utilizzare il gioco nella formazione esperienziale e meditare sulle reazioni dei partecipanti che non sono, generalmente, dei giocatori.


Come dicono quelli saggi cominciamo dall’inizio, piazziamo quelli che sono i mattoni base rispetto a qualsiasi costruzione teorica: le definizioni.
Partendo da una delle molte possibili che identificano il concetto di gioco: insieme di regole che creano un contesto non reale da condividere con altri utilizzatori delle stesse regole.
Come a dire che un gioco è definito più dalle regole astratte che lo strutturano, e da chi le usa, piuttosto che dal materiale concreto di caselle, dadi, pedine e scatole.
Dall’altra parte, una delle possibili definizioni del concetto di formazione esperienziale recita: attività didattica che usa un contesto di solito metaforico in cui le persone sperimentano le proprie competenze e capacità, al fine di prenderne consapevolezza e trasferire poi le possibili implementazioni in àmbito reale.
Cioè: la formazione esperienziale è quel modo di fare didattica in cui si fa sperimentare un’attività (di solito in modo “non reale”) per fare meglio capire e memorizzare le teorie che dovrebbero regolarla.
Se teniamo buone queste definizioni notiamo alcuni elementi sorprendentemente coincidenti: attraverso il gioco si può fare un’esperienza entrando in un contesto non reale (col vantaggio quindi che tutto possa succedere senza danni fisici o economici per le persone), organizzato da regole condivise con altri, tecniche e relazionali, esattamente come di solito succede anche fuor di metafora nella vita reale.
Non a caso fin dalla notte dei tempi uno degli obiettivi del gioco infantile è quello di imparare le cose che si dovranno poi applicare da grandi: caccia, guerra, allevamento dei piccoli, e così via. O di ricordare alcune norme in modo più facile perché stimolate nella memoria dal divertimento.
Possiamo quindi azzardarci a dire che giocando si può imparare (su questo concetto Clementoni col suo Sapientino© ci ha fatto miliardi di vecchie lire e migliaia di nuovi euri) e su questo probabilmente non discute nessuno.
Tuttavia -già che ci siamo proviamo ad approfondire un po’ il discorso- questa affermazione viene recepita quasi sempre in tema di apprendimento simulativo: imparo a scrivere collegando le lettere con gli animali, gioco al pilota usando il joystick di un fly simulator, gioco al medico praticando l’Allegro chirurgo, gioco al manager praticando i business game…
Cioè uso il gioco come campo astratto di pratica in cui imparo diciamo così gli aspetti hard di un certo lavoro(la manualità dei chirurgo, il controllo del cockpit di un aereo…), evitando il rischio di un fallimento aziendale o lo schianto contro la collina di Superga.
Esiste tuttavia un altro uso didattico del gioco, collegabile in modo meno evidente ma forse ancora più intrigante alla crescita di una persona: quello dell’analisi e dell’implementazione delle competenze e capacità soft, quelle non legate al saper fare ma al saper essere, quelle ad esempio connesse alla comunicazione, alla capacità di prendere decisioni, al sapersi relazionare con uno o più altri, al vincere e perdere e così via. Competenze trasversali utili in tutti i campi e non necessariamente connesse a qualche attività specifica come la metallurgia o il volo transoceanico, e tuttavia spesso incredibilmente  sottovalutate in ambito scolastico o aziendale.
Qui lo strumento gioco viene sviluppato indipendentemente dalla metafora di cui si veste, che resta importante solo come motore di divertimento, focalizzando l’attenzione educativa sulla parte di gestione delle regole e delle relazioni.
Anche senza andare alla ricerca di giochi appositamente progettati a questo scopo (ce ne sono diversi, non tutti i giochi si prestano ad analizzare o sottolineare le stesse competenze) proviamo a vedere concretamente come possono funzionare –formativamente parlando-anche i giochi cosiddetti “comuni”.
Gli scacchi ad esempio, come ogni altro gioco astratto praticabile in modalità torneo-cronometro, sono un campo di prova ideale per misurare i livelli di visione strategica e capacità di prendere decisioni sotto lo stress del tempo.
Diplomacy è -per definizione si potrebbe dire- un ottimo strumento di valutazione delle capacità negoziali dei giocatori/discenti. Il vecchio Can’Stop è (era -purtroppo non se ne trovano più tante copie) ottimo per lavorare sulle capacità di prendersi dei rischi, così come quasi tutti i giochi in cui si usano più dadi e più calcoli di probabilità.
Se in una sessione formativa distribuiamo solo un po’ del nostro sapere circa le competenze di negoziazione teorizzate dalla scuola di Palo Alto, gli “alunni” memorizzeranno solo una parte delle informazioni passate. Se invece cominciamo a fare giocare il gruppo, diciamo ad esempio a Coloni di Catan, a un certo punto li fermiamo per informarli su cosa dicono Fischer&Uri a proposito della negoziazione efficace win win, e poi facciamo ripartire il gioco sollecitando l’attenzione alle modalità di applicazione delle informazioni esposte, forse finiremo la “lezione” con una consapevolezza maggiore di: quanto serve prestare attenzione all’altro, come usare meglio la comunicazione per spiegare le proprie esigenze, come si arriva ad un risultato migliore per entrambi…
Nell’utilizzare questi elementi-gioco in un contesto formativo occorre tuttavia fare attenzione ad alcuni aspetti non sempre evidenti: la conoscenza delle regole, l’importanza del vincere o perdere, il rapporto dei partecipanti col concetto di gioco.
1)          Il tempo-aula da dedicare a queste attività è sempre molto ristretto (in teoria la parte esperienziale del tutto non dovrebbe superare il 30/50% del tempo globale di docenza), quindi doverne stanziare troppo per imparare delle regole che nessuno conosce potrebbe diventare distonico rispetto all’economia temporale globale. Considerando poi che quasi sempre le regole sono “difficili” da capire, soprattutto da parte di alcuni soggetti mentalmente meno strutturati (come chi scrive, ad esempio).
Quindi, a meno che non si voglia utilizzare proprio questo elemento come ulteriore sttrumento di analisi (quanto ci metto a capire una regola, cosa mi dà fastidio/stress/angoscia nel leggere le regole, quanto è più facile studiare regole in gruppo ecc.) è consigliabile proporre giochi che quasi tutti conoscono (l’ipotesi che tutti le conoscano riduce di molto la gamma dei giochi fra cui scegliere).
D’altra parte anche la diversa conoscenza degli strumenti di attività da parte di elementi di uno stesso gruppo potrebbe essere un bell’elemento di meditazione e formazione: anche nel lavoro quasi mai tutti i membri di un team conoscono le “regole” del progetto allo stesso modo. E questa conoscenza determina spesso meccanismi di dinamiche interne, creazione di leadership e così via utilissime da esaminare in aula.

2)          Checché se ne dica, il concetto di gioco si collega a quello di sport, con la conseguenza inevitabile che i partecipanti recepiscono l’esercizio come qualcosa in cui è importante, se non essenziale, vincere e di conseguenza inevitabile fare perdere. A volte – molto spesso- il piacere di questo risultato tende a prevaricare l’obiettivo reale della sessione formativa, cioè imparare qualcosa di se stessi e migliorare. Sarà quindi cura del docente che usa questo strumento come elemento esperienziale tenere sotto controllo il furore agonistico (come dice sacchi) dei giocatori, magari sottolineando come questo possa agire da eustress per portare a risultati migliori o anche peggiori, se non la si tiene sotto controllo. Certo è che quando si usa il gioco, in alcuni ambiti come ad esempio quello di negoziazione  efficace orientata alla soddisfazione di entrambi i contendenti, è difficilissimo fare superare alle persone il concetto di “io vinco se tu perdi” celebrato da ogni attività sportiva. Quando si arriva al debriefing, cioè la considerazione finale su come si è agito, qualcuno che dice: “ma era un gioco, era ovvio che l’obiettivo era quello di far perdere l’altro”, lo si trova sempre.

3)          Non tutti apprezzano, e non tutti nella stessa misura, il concetto stesso di gioco. Quando si lavora in aula formativa non si è in una ludoteca, le persone che si hanno davanti spesso non sono venute di loro spontanea volontà, quasi mai sono venute per giocare, magari hanno una serie importante di problemi per cui l’idea stessa di gioco risulta loro estranea quando non fastidiosa. Comunque –e giustamente- rifiutano l’ipotesi di poter essere giudicate a livello lavorativo tramite una simulazione molto metaforica quale è il gioco un ogni caso. È quindi fondamentale trasmettere da subito la comprensione e liceità di queste resistenze, e il patto di non valutazione se non attraverso forme di autoanalisi (sarete voi che deciderete se e quanto cambiare per essere migliori, non un assessor o l’azienda)
Anche il modello di gioco non è accettato da tutti allo stesso modo: facendo una distinzione per generi ad esempio ai maschi andrà più a genio una metafora ludica di tipo bellico-scontro rituale, per le donne sarà più consono l’ambito induttivo psicologico.
Per superare queste resistenze è quindi in ogni caso importante tenere un po’ sotto traccia la parte esperienziale e molto più in luce quella di crescita formativa, spiegare bene le modalità e gli obiettivi, stimolare le persone ad usare magari proprio quelle resistenze che l’uscire dalla zona di confort fa venire fuori.

Detto ciò e fatta attenzione a questi elementi, usare il gioco in aula formativa è senza dubbio una delle esperienze più arricchenti che si possano sperimentare, sia a livello di competenze hard che soft.
E questo detto da uno che usa il gioco da quarant’anni in ogni ambito, ma che allo stesso tempo -avendo un livello di sopportazione della conflittualità bassissimo- non ama giocare, credo sia davvero illuminante.

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